Chi attraversa un tunnel di sofferenza impara bene a proteggersi una volta alla luce del sole, soprattutto impara che non c’è bisogno di scavare in un dolore per comprendere l’essenzialità di un diritto.
D’altro canto che una donna debba avere la possibilità di scegliere cosa farsene della propria vita e che questa possibilità si costruisca anche attraverso il lavoro, non è un’istanza che necessita di un passato burrascoso per diventare un presente concreto.

Dopo la prima fase dell’accoglienza, che cosa resta nella vita di una giovane donna migrante, in un paese lontano per geografia e cultura, magari con qualche figlio a carico e un trascorso doloroso?
Resta la parte forse più difficile da affrontare: l’integrazione.
E’ così che da Casa Rut, centro di accoglienza di Caserta, promosso e gestito dalle Suore Orsoline, nasce l’idea di creare occupazione. Un percorso di formazione che introduca e inserisca le giovani donne nel mondo del lavoro e all’interno del territorio, che le renda autonome e specializzate in una delle dimensioni più difficili dell’ambito lavorativo: la cooperazione.


Quando si entra nel laboratorio di sartoria New Hope, si prova subito una sensazione di estraneità, c’è un codice di complicità che non si può decifrare, fatto da trascorsi condivisi, pezzi di stoffa ricuciti insieme.
Una accanto all’altra, le donne della cooperativa fondata nel 2004 a Caserta, lavorano in silenzio. Ognuna concentrata sulla propria funzione, ma sempre pronta ad un’attenzione verso l’altra, tra una risata e un momento di confidenza.


Al di là del lavoro, mi sembra che s’impari un modo di condividere, di ritrovare fiducia nell’idea insieme ci si possa salvare da un passato, da una paura o che si possa attraversare al meglio un dolore o una difficoltà.
Si ricomincia a sperare con poco, può bastare ago, filo o un ferro da stiro. Magari sono anche i colori, uno accanto all’altro, uno più acceso dell’altro, come se le stoffe ricordassero giorno dopo giorno che la vita può avere nuove sfumature.
I tessuti wax, di origine africana, sono alla base della maggior parte dei prodotti realizzati dalla sartoria e rispondono perfettamente a questa prerogativa: i motivi che li caratterizzano sono sempre diversi, capaci di rispecchiare storie e stati d’animo.


Svariate sono le storie di chi è accolto nel laboratorio di New Hope, come svariati sono gli stati d’animo che si attraversano durante il percorso all’interno della cooperativa, che nel tempo ha aperto le porte anche alle donne del territorio emarginate a causa di una disabilità.
C’è chi ha viaggiato a lungo e chi ha sempre abitato a due passi dal laboratorio, chi ci è entrata senza saper parlare una parola di italiano e chi non avrebbe avuto altro posto dove andare.
Ma dai margini sono tutte converse insieme al centro, in uno spazio dove non si può prescindere dal mettere in gioco, giorno dopo giorno, una piccola parte di sé.


“Questo non è un lavoro come gli altri. Se non ci metti il cuore, non puoi venirci qui dentro, non funzionerebbe.” afferma Marianna, 33 anni, originaria di Caserta. E’ stata integrata nella cooperativa per una leggera invalidità e oggi l’aspetto che più ama del suo lavoro è conoscere altre vite, confrontarsi con difficoltà diverse dalle sue, riconoscersi e sentirsi riconosciuta da chi sa leggerla ancora meglio di quanto lei legga se stessa.



Il confronto, o l’aver acquisito una profonda capacità di relazione, sembra prioritario anche per Josephine, arrivata in Italia nel 2009 dalla Nigeria: “Il nostro lavoro ci induce al contatto con le persone e io credo che questo sia l’aspetto migliore, quello che ci porta ad ascoltare e ad imparare da tutto e da tutti. Io, che ero estremamente chiusa, ho dovuto imparare a reagire, a parlare, a vivere.”

Per Sara invece, in carrozzina dalla nascita, il laboratorio ha rappresentato l’unica alternativa possibile per affrontare la quotidianità in maniera appassionata e attiva. In un territorio che non offre sufficienti prospettive e possibilità per chi vive in sedia a rotelle, appartenere ad una dimensione lavorativa come quella del laboratorio diviene vitale.
Ci si ritrova catapultate in una famiglia tanto quanto in una rinascita personale. Mentre si ricomincia a camminare da sole, si muovono dei passi insieme, per poi essere di nuovo un po’ più forti da sole.
Del suo percorso mi parla Oxana, che ha lasciato l’Ucraina quindici anni fa. “I passi più importanti si compiono nei momenti di sofferenza. Il dolore ti permette di scavare e andare oltre quello che la vita ti mette davanti. Se ci pensi quanto ci vuole a sconfiggere le tenebre? Basta accendere la luce. Ma solo chi ha sofferto davvero, può capirlo.”
Forse è questo il filo conduttore, invisibile, imperscrutabile e indistruttibile che le lega. Forse solo chi tocca forme di dolore così acute, sa riconoscersi nella speranza.

E alla fine la speranza è intangibile come una fede, ma concreta l’ago e il filo che permettono alle dieci donne che lavorano con un contratto a tempo indeterminato nella cooperativa e a chi entra ed esce come tirocinante, di mettere un piatto a tavola per se stesse e per i propri figli.
E’ una questione di dignità, quella che leggo nella fermezza dello sguardo di Mirela, Presidente della cooperativa, arrivata diciannove anni fa in Italia e la dignità, in certi casi, è tangibile come una stoffa.
“Il mio sogno è che la cooperativa cresca il più possibile per offrire a chiunque ci metta piede la possibilità di rinascere. Noi formiamo le donne che arrivano qui non solo per restare con noi, ma per imparare a relazionarsi e a responsabilizzarsi. Veder crescere la nostra attività non rappresenterebbe un arricchimento personale, ma un modo per restituire a quante più donne possibile la propria vita.” afferma Mirela.


E se per comprendere il valore di New Hope basta guardare al fatto che per qualcuno rappresenti l’unica strada percorribile per un futuro diverso, si può cambiare prospettiva e guardare alla scelta di chi si è lanciato nella cooperativa, abbandonando una dimensione lavorativa più stabile.
“Avevo un lavoro sicuro come professionista nell’ambito della comunicazione, poi ho conosciuto questa realtà, ho iniziato a sentire le store delle ragazze sotto pelle e l’ho scelta.” racconta Daniela “Non è facile, giorno dopo giorno bisogna essere in prima linea in termini di inventiva e organizzazione per andare avanti. Il lavoro, insomma, dobbiamo crearcelo. Però sai cosa provo? La sensazione che ogni giorno metto a disposizione le capacità per qualcosa di bello e di giusto. Ogni giorno rientro a casa con il cuore pieno.”
