È da più di quattro mesi che il popolo palestinese a Gaza resiste sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano, bombardamento che ha già fatto quasi 30.000 morti, dopo che i militanti di Hamas avevano attraversato il confine di Gaza e ucciso 1.200 coloni israeliani e catturato 240 ostaggi (almeno 130 sono ancora a Gaza).

Intanto, più di un milione di rifugiati palestinesi è concentrato a Rafah, al confine con l’Egitto, sottoposto a continui attacchi aerei. Il 18 febbraio l’esercito israeliano ha annunciato un’imminente operazione militare di terra se gli ostaggi non saranno liberati entro l’inizio del Ramadan (intorno al 10 marzo).

L’obiettivo implicito dell’operazione sembrerebbe essere quello di spingere la popolazione a varcare il confine con l’Egitto.

Il procedimento all’occupazione militare

Il 19 febbraio 2024 la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha dato il via ad un altro procedimento pubblico nel corso del quale 52 paesi prenderanno posizione relativamente all’occupazione militare dei territori palestinesi (Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est) che va avanti dal 1967.

L’udienza cominciata due settimane fa riguarda un parere legale richiesto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite già nel dicembre del 2022, perciò non ha nessun collegamento diretto con la situazione attuale. D’altra parte, un processo relativo all’occupazione militare è quantomai rilevante oggi per capire le origini del massacro che sta avvenendo a Gaza in queste ore.

Ma prima di entrare nel merito del procedimento, dobbiamo rispondere ad una domanda necessaria per comprenderlo.

In cosa consiste l’occupazione dei territori palestinesi?

La Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza sono territori che, secondo il piano di spartizione dell’ONU accettato da Israele nel 1948, appartengono alla popolazione arabo-palestinese. Questo piano di spartizione prevedeva la creazione di due stati di simile estensione territoriale, nonostante la popolazione palestinese costituisse più del 70% della popolazione. (leggi qui )

Nel corso della cosiddetta seconda guerra arabo-israeliana, nel 1967, Israele occupò questi territori istituendo un regime militare. Ad oggi i palestinesi sono sottoposti a tale regime, cosa che permette alle forze di sicurezza israeliane di operare un controllo costante sulla popolazione (per approfondire), incarcerando e detenendo per tempo indeterminato chiunque.

Oggi i prigionieri politici palestinesi sono più di 9.000, 3.400 dei quali in detenzione amministrativa (cioè detenuti senza capi d’accusa e senza processo), secondo l’organizzazione per i diritti umani Addameer.

L’occupazione militare permanente permette a Israele di controllare il territorio e la popolazione palestinese, senza riconoscerne i diritti, sia come popolo sia sul piano individuale. Il risultato è che la popolazione palestinese, pur abitando gli stessi territori, non gode degli stessi diritti civili della popolazione israeliana, ed è sottoposta a “limitazioni discriminatorie nell’accesso e nell’uso di terreni agricoli, acqua, gas e petrolio tra le altre risorse naturali, così come restrizioni nell’erogazione di servizi sanitari, di istruzione e di servizi di base” (leggi qui il report di Amnesty).

Il risultato dell’occupazione militare permanente è uno stato di apartheid in cui l’appartenenza etnica, israeliana o palestinese, stabilisce a quali diritti si può avere accesso e quali no.

Perché Israele continua a mantenere l’occupazione militare?

L’occupazione permanente è considerata un’annessione di fatto dei territori occupati. Ma è per evitare di perdere il carattere etno-religioso di Israele come stato ebraico che il governo sionista si oppone così ferocemente alla fine dell’occupazione.

Infatti porre fine all’occupazione può avere due conseguenze:

  • La concessione della cittadinanza israeliana ai palestinesi, e quindi la creazione di uno stato unico democratico etnicamente plurale.
  • La creazione di uno stato palestinese nei territori occupati e la rimozione degli insediamenti israeliani attualmente presenti nei territori palestinesi occupati.

Entrambe le opzioni significherebbero rinunciare al sogno sionista di un Grande Israele.

Comprendere le conseguenze della fine dell’occupazione militare che dura ormai da 57 anni ci aiuta a capire quali sono le opportunità, ma anche le resistenze, alla creazione di un dialogo che possa portare ad una pace permanente.

Ci sono due questioni fondamentali che la discussione sulla fine dell’occupazione militare permanente rimette al centro, questioni che vanno aldilà del ‘cessato il fuoco’ immediato e che invitano a riflettere su come costruire una pace permanente.

Il diritto al ritorno

Milioni di palestinesi rivendicano il diritto a fare ritorno ai luoghi di originaria residenza e a vedere la propria appartenenza nazionale riconosciuta e rispettata. Tale diritto viene però contestato da Israele, che sostiene che l’allontanamento sarebbe stato volontario e che, di conseguenza, i rifugiati avrebbero perso ogni diritto.

Dal 1948, cioè dal conflitto scoppiato con la creazione dello Stato di Israele, durante il quale centinaia di migliaia di palestinesi furono, direttamente o indirettamente, espulsi dai territori occupati dagli israeliani, essi e i loro discendenti (che oggi si stimano in oltre 5 milioni) costituiscono un gruppo di rifugiati apolidi, ovvero senza cittadinanza.

Dato che uno stato palestinese non esiste, gli unici documenti che hanno i palestinesi espulsi nel ’48 sono quelli dello status di rifugiato, che così si tramanda dai genitori ai figli ormai per più di tre generazioni.

È paradossale che il diritto al ritorno degli ebrei in Israele, terra dalla quale furono espulsi più di 2.000 anni fa, è sancito dalla Legge del Ritorno del 1950. Lo stesso diritto che permette a cittadini di qualsiasi paese, purché con uno o più nonni ebrei, il diritto ad ottenere la cittadinanza israeliana.

Il diritto all’auto-determinazione

Nel 2017 Hamas accettava finalmente i confini del 1967 nell’ottica di una creazione di uno stato palestinese dentro questi confini (al paragrafo 20). Rinunciando, in favore di Israele, ad una gran parte del territorio originariamente assegnato ai palestinesi (una parte immensa se si pensa al territorio della Palestina storica prima del 1948), anche i gruppi politici palestinesi più conservatori sembravano essere più pronti del governo israeliano a compromettere il sogno di una Palestina interamente libera a favore di una soluzione pragmatica.

Per tutta risposta nel 2018, il governo israeliano di Netanyahu ha fatto approvare una legge in base alla quale si stabilisce che solo il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione nello Stato di Israele. Come del resto anche nelle ultime settimane, Netanyahu continua a negare il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e a creare uno stato sovrano nel territorio di Israele/Palestina.

Se la volontà politica di porre fine all’occupazione sembra mancare, la fine dell’occupazione presenta anche dei seri problemi pratici.

Il trasferimento di una parte enorme della popolazione israeliana all’interno dei territori militarmente occupati rende, di fatto, l’occupazione permanente e difficile da rimuovere. La questione degli insediamenti oggi rappresenta il problema più grande per la soluzione politica della questione palestinese.

La stessa legge passata nel 2018 in Israele considera gli insediamenti nei territori occupati di “valore nazionale” e rende lo Stato di Israele responsabile dello sviluppo continuo delle colonie nei territori occupati. Secondo l’organizzazione per i diritti umani e centro legale Adalah, questo aspetto della legge è particolarmente problematico perché rende legale, dal punto di vista del diritto nazionale israeliano, la colonizzazione della Cisgiordania. Dal punto di vista del diritto internazionale invece gli insediamenti di popolazione dello stato occupante nei territori occupati militarmente sono vietati, ancor di più è vietato che la popolazione occupata sia soggetta a segregazione razziale.

Uno dei principali ostacoli alla pace è che, a tutt’oggi, non c’è consenso nemmeno nella società internazionale sull’illegittimità degli insediamenti e sulla necessità di porre fine all’occupazione militare affinché si possa costruire la pace.

Perché gli insediamenti determinano un regime di apartheid?

Il problema non è solo che le colonie illegali sottraggono territori e risorse alla popolazione palestinese, ma lo fanno con il supporto incondizionato dello stato e con metodi apertamente violenti. La costruzione di opere di infrastruttura – come strade e acquedotti ad uso esclusivo della popolazione israeliana – e di un vergognoso muro di separazione (la barriera di separazione lunga oltre 700 km, che isola i territori degli insediamenti e le relative risorse, rendendoli inaccessibili alla popolazione palestinese), costituisce l’espressione più visibile di un regime di segregazione razziale.

Secondo Amnesty International “Porre fine all’occupazione vorrebbe dire ripristinare i diritti dei palestinesi (…) Porre fine all’occupazione significherebbe anche affrontare una delle cause di fondo delle ricorrenti violenze e dei crimini di guerra contro gli israeliani, contribuendo così a migliorare la protezione dei diritti umani e ad assicurare giustizia e riparazione alle vittime di tutte le parti.”

Porre fine all’occupazione è necessario alla costruzione della pace.

Più a lungo dura l’occupazione, più Israele riesce ad evitare qualsiasi tipo di sanzione da parte della comunità internazionale, meno è probabile che la situazione possa cambiare verso una convivenza pacifica.

Ricordiamo che per il diritto internazionale, l’occupazione militare non può costituire un metodo di amministrazione permanente di un territorio e che l’annessione unilaterale di un territorio da parte dell’occupante è illegale.

Il procedimento che si sta svolgendo alla CIG in questi giorni ha il potenziale di cambiare questa situazione, sempre che la comunità internazionale riesca a unirsi politicamente perché la possibile sentenza venga applicata.

Dopo quattro mesi di bombardamenti indiscriminati è chiaro che Israele non riuscirà a distruggere Hamas militarmente, così come è chiaro che, dovesse anche riuscirci, la resistenza palestinese non si fermerà con la scomparsa di Hamas. Il cessate il fuoco è un primo passo e permetterebbe di salvare una quantità enorme di vite umane, palestinesi così come degli ostaggi israeliani.

Tuttavia, anche un cessate il fuoco, senza una soluzione politica alla questione dell’occupazione illegale, non porterà alla pace, e non ci può essere pace finché quello palestinese non sarà un popolo libero di esistere e autodeterminarsi.

Per approfondire

Il muro d’acciaio (documentario, 2006) https://www.youtube.com/watch?v=2YDWd1SZ6k8&t=18s

L’apartheid secondo l’ONG israeliana Bt’selem https://thisisapartheid.btselem.org/eng/#18

Write A Comment