Qualche giorno fa, qui a Quelimane, ho fatto amicizia con una donna che vive vicino casa mia. Cucina e vende spiedini di pollo che io mi ritrovo a mangiare praticamente ogni sera, ho quasi sviluppato una dipendenza. Domenica scorsa mi ha invitato a casa sua per pranzo. Mi ha regalato un momento molto intimo, come se avessi trovato un pezzo di casa, come una piccola vicinanza o un’abitudine che ti riscalda le giornate.

Mi trovo in Mozambico perché sto concludendo un dottorato in America. È un percorso che dura cinque anni e si conclude con un progetto di ricerca che si sceglie sulla base dei propri interessi. I miei consistevano nell’acquisire competenze specialistiche nell’economia dello sviluppo, girare diversi paesi, contribuire ad un cambiamento. La carriera da ricercatore negli Stati Uniti dovrebbe essere l’indice di una carriera soddisfacente. In termini di esperienze, riconoscimenti, stipendio. Sì, dovrebbe.

Non mi è dispiaciuto vivere lì, non mi è dispiaciuta la mia scelta. L’ambiente è dinamico e la possibilità di riscoprire se stessi in relazione agli altri è costante. Non ci sono molti riferimenti culturali in cui identificarsi, c’è una grande libertà espressiva.

I miei colleghi hanno personalità originali e poliedriche, persone con cui è davvero stimolante poter avere uno scambio. Eppure ho sempre avvertito delle distanze incolmabili. Una volta ho chiesto ad un mio collega come stesse e mi ha risposto parlando di dati, io gli ho spiegato che mi riferivo alla sua vita personale, lui ha controbattuto che in quel momento erano un po’ la stessa cosa. È un mondo estremamente competitivo quello della ricerca. Le mail possono arrivare alle due di notte, tanto quanto la domenica mattina. Sei circondato da persone ambiziose e inizi a chiederti che cosa c’è che non va in te se qualche pomeriggio capita che la tua ambizione più grande sia passare una giornata in spiaggia.

Non so quanto sia giusto vivere cosī, o meglio, non ne capisco il senso. Credo che cominci presto, da bambini, quando ci proiettano in una dimensione quantitativa e oltre allo strumento, dobbiamo parlare qualche lingua, essere bravi in più di uno sport e portare a casa le medaglie. Saper sciare, nuotare, giocare a calcio, saper correre. Guadagnare terreno.

E poi ci sono i voti scolastici e la leggera pressione che avverti negli occhi dei tuoi genitori, più è alto il voto, più si alza la lancetta della soddisfazione nel loro sguardo. E allora o vai in conflitto, o insisti. Io ho insistito. Ho puntato l’asticella sempre più in alto, la media alta, le lingue, la facoltà con il ranking più alto, le esperienze lavorative competitive. Ho accumulato il più possibile e mi sono riscoperta a correre. Accanto a me tanti, chi più veloce, chi indietro, chi al mio passo.

E negli Stati Uniti mi sono fatta trasportare da un’onda che non era la mia, un’onda fatta di competitività più intensa di quella già sperimentata, forse persino di aggressività. E io mi sono dimenticata che cosa volessi prendermi da quell’esperienza, mi sono lasciata sopraffare.

Poi, d’un tratto, qualcosa mi ha fermato. Non saprei bene descrivere cosa fosse, ma più correvo, più la nostalgia di casa mia e di tutto ciò che portavo dentro di me oltre numeri e classifiche, mi assaliva. Non riuscivo a riconoscermi nella vita che vivevo, non intravedevo più la mia strada.

Io penso che si possa compiere qualunque scelta se si imparano ad applicare i giusti filtri, quelli che ci tutelano, permettendoci di agire nel rispetto di noi stessi e con il giusto bagaglio di consapevolezze.

Perché non ce lo insegnano da bambini? Perché non ci insegnano ad avere a che fare con la complessità delle scelte che ci ritroveremo a compiere e con il prezzo che ci ritroveremo a pagare? Le scelte si fanno compiendo delle valutazioni sui limiti che abbiamo. Si chiamano constraint, io ne studio parecchi.

I miei constraint mi impediscono di perseguire una carriera brillante e poter andare la domenica a trovare mia nonna, ad imparare la sua ricetta della crostata ai tagliolini. È un viaggio lungo quello per tornare e ha un costo, non posso permettermelo più di un paio di volte l’anno. Mi perdo tutti i compleanni delle persone che amo. Perdo anche la possibilità di viaggiare, perché quando posso viaggiare torno a casa. E nonostante ciò di casa mia perdo molto, perdo tutto.

Certo non esiste un posto dove puoi stare a casa e al contempo esplorare un’altra parte del mondo. È questo il constraint, però io non ne conoscevo il prezzo. E quello che mi chiedo è perché nessuno mi abbia mai mostrato l’altro volto dell’ambizione.

Mi chiedo spesso se le cose della vita siano semplici oppure difficili. Forse perché sono un’economista e tendo a voler semplificare la realtà. Mi chiedo spesso anche che cosa sia il successo. Forse una persona di successo è chi procede nella vita senza essere vittima delle proprie scelte. Se la strada per questa consapevolezza sia semplice come l’odore del pane della mia infanzia o il risultato di una funzione polinomiale, io ancora non so rispondere.

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