-“Lea, voglio che racconti la verità. Sei giovane, conosco il tuo immaginario, si fa presto a trasformare un atto normale in un atto eroico. La disabilità è meschina, non dimenticarlo.”
-“D’accordo Annalisa, racconterò la tua verità.”
La vita di Annalisa è colorata. Mi sembra un campo fiorito su cui ci si stende dopo una lunga battaglia. E’ colorato di un verde acceso il suo cappotto e hanno colori diversi le pareti della sua casa. E’ una casa accogliente e decisa. Puoi essere chiunque, lei ti accetterà. E’ la casa più viva che io abbia mai visto, traboccante di libri, quadri, frasi alle pareti. Ci ha messo tempo a costruirla come la voleva e oggi è il suo posto nel mondo. Ripenso all’adolescenza, quel periodo in cui è comune ritrovare se stessi in una frase di un libro, di una canzone e magari trascriverla per conservarsela. Mi chiedo se sia solo una fase della vita quel subbuglio interiore o se per alcune persone possa essere una costante capacità di interrogarsi e riscoprirsi.
Annalisa cammina con un po’ di fatica, lentamente. Nascere con una lesione al cervelletto come la sua implica difficoltà nell’articolazione degli arti. Con le mani può fare quasi tutto, ma spesso tremano, si muovono involontariamente e non ha il pieno controllo del movimento. Se sei seduto a tavola con lei, quanto queste difficoltà possano catturare la tua attenzione dipende da te. Dalla tua storia, secondo Annalisa. Dall’educazione emotiva che ricevi a scuola e in famiglia, secondo me. Annalisa ha scoperto la sua immagine a tredici anni, quando cominciarono a circolare sul mercato i primi videoregistratori e lei chiese a sua cugina di riprenderla. Voleva vedersi camminare e ascoltare la sua voce. La disabilità è una condizione meschina, che mi ha spinto ad essere meschina, mi ripete. E’ una condizione che porta con se’ cattiveria e invidia, che ti spinge a domandarti perché proprio a te, perché tu non possa essere fortunata come gli altri. Così, provi a tutti i costi a rientrare in quell’idea di normalità. Annalisa ci ha provato per anni, ovattando il rifiuto per il proprio corpo. Al punto tale che la disabilità non poteva essere nemmeno nominata. Fare l’amore per la prima volta l’ha salvata. Ciò che le costava più fatica era accettare che potesse essere desiderata.
Me lo racconta proprio in questi termini, lei che è nata e cresciuta con l’idea che disabilità e femminilità fossero incompatibili, in un contesto culturale secondo il quale una donna disabile non ha sessualità, perché il sesso necessita di bellezza e la disabilità non è bella in senso stereotipato. Se cresci così, gli sguardi degli altri possono essere molto dolorosi. Disagio e pietismo si trasmettono in una frazione di secondo. Annalisa a volte ha trascorso intere sedute di terapia a superare il dolore di uno sguardo. Un dolore atroce soprattutto a quindici anni, quando non hai strumenti per difenderti.
Ma nel tempo qualche sguardo può anche salvarti. Nella vita di Annalisa sono arrivati tanti sguardi belli e caldi, braccia che l’hanno stretta, mani che l’hanno accarezzata, persone che l’hanno riconosciuta e amici che non l’hanno aiutata ogni volta che è caduta, fiduciosi che si sarebbe rialzata da sola. Mi racconta di aver guardato un po’ di tempo fa il proprio riflesso in una vetrina mentre stava camminando. “Non sono poi tanto storta”, commenta divertita.
E’ una donna caparbia, questa è la verità. Qualche mese fa l’ho invitata in una casa dove vivevo per farle un’intervista. Si è fatta quattro piani a piedi. Non ha vacillato, non si è lasciata aiutare. Gradino dopo gradino, con i suoi tempi, è arrivata a destinazione. Posso traslare quest’immagine a tutta la sua vita, immagino la sua fatica e le sue conquiste.
Vive con due gatti, Audry e Ingrid. Ingrid è sorda e probabilmente ha una lesione neuronale. “Ma vive la sua vita da gatta e se ne fotte altamente“, commenta Annalisa. Forse anche lei ha imparato a fare un po’ questo, fregarsene e mostrarsi per quello che è. Ha imparato a vendersi come avvocato e a sedurre come donna.
La sua ultima conquista è da scrittrice. La quarantena le ha portato via per mesi la vita che si è costruita a fatica: gli amici, le cene, i pranzi, le passeggiate, gli incontri spirituali, gli uomini. E’ caduta in una solitudine profonda che l’ha spinta a riflettere e scrivere. Ha cominciato, un po’ per gioco un po’ per bisogno, a liberarsi dei suoi demoni scrivendo dei post su Facebook, che una volta accumulati hanno raccontato il suo percorso di isolamento. A febbraio questo diario virtuale si è trasformato in un libro: “Diario di una zitella in quarantena”. Sono pagine in cui si racconta senza filtri, svelandosi nelle sue fragilità e nelle sue dimensioni interne.
Le chiedo cosa la spinga a svelare della parti così intime. Mi spiega che ogni parola del diario è solo un punto di una retta, un cammino infinito e quelle pagine non potrebbero mai svelare per intero la sua essenza, perché la sua ricerca è continua, è cominciata molto prima del diario e non terminerà con questo racconto. Il diario per Annalisa è solo un’occasione di contatto, di scambio con altri, attraverso un dialogo che lei compie con se stessa. E’ una raccolta di testi dinamici e rivelativi, che possono far piangere o far ridere a seconda di chi li legge. Annalisa lo legge e lo rilegge e ogni volta scopre qualcosa di nuovo su di se’, perché raccontarsi può essere molto limitante se non c’è ogni volta la voglia di riscoprirsi. La speranza è che il diario arrivi lontano, a qualcuno che ne ha bisogno. Annalisa crede che nella vita contino gli incontri, gli scambi, le sinergie e che spesso i libri l’abbiano salvata, l’abbiano fatta sentire meno sola.
Per lungo tempo si è sentita sola, vivendo nel timore costante di essere isolata, ghettizzata. La pandemia l’ha catapultata in un mondo al contrario, dove tutti sono fragili e in esilio, con la constante paura di cadere intrappolati da una malattia. Se tutti ci ricordassimo di essere potenzialmente malati, crollerebbero le barriere e ci assomiglieremmo un po’ di più. Descrive bene questo concetto nel suo libro e mi ripete che prima o poi tutti ci pisceremo sotto. Ha maturato con gli anni che la disabilità è una condizione, non una condanna irreversibile. Secondo lei è una domanda che devi fare a te stesso: “Chi sei? Sei Il tuo corpo storto?”
Le risposte che si è data le sono costate lacrime e dolore, fino a liberarsi e rinascere, vivendo una vita che assomigliasse un po’ di più al mondo che ha dentro se stessa. Mi chiedo se parte di questo dolore non avrebbe potuto risparmiarglielo un mondo più educato alla fragilità, alla malattia, alla morte. Forse si, mi dice lei, ma il percorso che fai con te stesso conta altrettanto. Mentre chiacchieriamo, io continuo a guardarla con ammirazione. Se ne accorge. E’ caparbia, ostinata. Vuole togliermi questa idea che ho di lei dalla testa.
“Lea, la mia battaglia continua, le mie meschinità non se ne vanno. La disabilità resta una cosa brutta. Nessuno vuole essere disabile, forse è solo il modo in cui decidiamo di starci dentro che può generare bellezza e fecondità.”
“Annalisa, ma non credi che questo aspetto ci riguardi tutti? Sani, malati, disabili, tutti possiamo essere meschini. Non credi che siano le scelte che compiamo nei momenti o nelle condizioni difficili della vita a determinare chi siamo?”
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Complimenti ad Annalisa, sono una sua ammiratrice. Ho alcune idee che trovano relazioni con il suo essere personaggio e persona. Ho iniziato a svilupparle. Spero di portarle avanti. Il suo diario non è solo un diario ma entra nelle esperienze di vita comuni e nella sua personalità come donna e scrittrice, dove l’ironia divertita e il racconto narrativo sono due aspetti emergenti.
Che bello questo articolo e le foto che la rappresentano non sono da corredo di immagini ma testimonianze sincere. Rossella Capuano