L’iter giurisprudenziale e politico-legislativo, che ha portato al riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, è stato lungo e complesso. Tuttavia, nonostante l’intervento del Legislatore, che ha garantito tutela giuridica a tali nuove formazioni sociali, residuano questioni problematiche e vuoti di tutela che sono al centro di recenti dibattiti di indubbio rilievo pubblico.
Ma per comprenderne il fondamento giuridico e sociale è opportuno muovere dall’impostazione tradizionale. Difatti, l’ordinamento giuridico, ereditando un’impostazione sociale sedimentata nel corso dei secoli, riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio1.
La sacralità e l’inscindibilità tradizionalmente riconosciute dalla Costituzione al vincolo matrimoniale hanno confermato l’impostazione storica, secondo cui il matrimonio è stato considerato come condizione di garanzia della tenuta del nucleo familiare e del tessuto sociale. Basti pensare che, solo dopo un lungo e complesso iter politico-parlamentare, si è pervenuti, con la legge n. 898 del 1970, all’introduzione del divorzio come ipotesi di scioglimento definitivo del vincolo di coniugio, garantendo la massima espressione della libertà individuale.
La famiglia è stata, dunque, storicamente considerata come il regno delle interrelazioni personali, ove l’individuo sviluppa la sua principale rete di rapporti, sociali ed affettivi. Tant’è che, da secoli, la famiglia è considerata come cellula sociale costituente che, combinandosi con le altre, plasma l’intera comunità.
Pertanto, proprio al fine di favorire il pieno sviluppo della persona umana, la legge è tesa a garantire i principali diritti e rapporti etico-sociali, tutelando, in particolare, i primordiali vincoli affettivi.
Ma la legge può tutelare anche “nuove formazioni sociali“, oltre alla famiglia tradizionalmente intesa e fondata sul vincolo matrimoniale?
La Corte Costituzionale si esprime favorevolmente sulle nuove formazioni familiari
Tanto premesso, la nascita di nuovi valori, consolidati con il progresso sociale, ha determinato rinnovate istanze di tutela, a garanzia di nuove formazioni sociali che, negli ultimi tempi, hanno assunto un ruolo centrale nel contesto pubblico.
In particolare, l’impossibilità per coppie omosessuali di accedere all’istituto del matrimonio, con le tutele ad esso connesse, e considerata anche l’inammissibilità di trascrizioni nei registri dell’anagrafe civile di matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, ha imposto necessariamente un duplice intervento della Corte Costituzionale, che ha distillato principi irrinunciabili nel nuovo contesto politico-sociale. Ritenuta la portata dirompente di tali pronunce, gli avvertimenti ivi contenuti sono stati fatti propri solo recentemente da un Legislatore, per anni, rimasto inerte.
I Giudici di Palazzo della Consulta, difatti, hanno evidenziato che “l’art. 29 Cost., (…) fa riferimento alla nozione di matrimonio definita dal codice civile, entrato in vigore nel 1942, che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso, (…), e non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.
Invero, considerata la delicatezza dei temi e dei valori cementati nel tempo, dovrebbe essere il solo Parlamento ad intervenire con scelte di rilievo anche politico 2, non potendo la Consulta intervenire in maniera diretta sulle unioni omosessuali. Ciononostante, la Corte, consapevole di non poter restare sorda dinanzi a tali istanze sociali, si è distinta per aver aperto uno spiraglio, indicando un percorso idoneo a garantire l’ingresso dell’unione omosessuale all’interno dei diritti tutelati dalla Costituzione Italiana. In dettaglio, i Giudici, evidenziando che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.), hanno rilevato che le disposizioni costituzionali si prestano a garantire nuove compagini sociali che nascono, si sviluppano e si insinuano nella trama della comunità nazionale. “Per formazione sociale deve intendersi(, dunque,) ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico, e che in tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
La Corte, in tale pronuncia, ha dato la stura a quello che è un orientamento oggi dominante, considerando che l’ordinamento tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza3.
La Legge Cirinnà (L. 20 maggio 2016, n. 76)
Il Legislatore, con la Legge n. 76/2016, anche detta comunemente Legge Cirinnà dal nome della Senatrice proponente, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso, quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, recando, altresì, la disciplina delle convivenze di fatto4.
In particolare, recependo le indicazioni fornite dalle autorevoli pronunce della Corte Costituzionale, il Parlamento ha ancorato la nuova disciplina a due fondamentali principi della Costituzione. In primo luogo, le unioni civili (e le convivenze di fatto) sono espressione delle “formazioni sociali” entro cui nasce e si sviluppa la personalità dell’individuo, non essendo, pertanto, riconducibile al concetto di famiglia tradizionale come “società naturale fondata sul matrimonio”. In secondo luogo, i nuovi vincoli attuano indubbiamente il principio fondamentale di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
In linea generale, la Legge Cirinnà appiattisce le differenze tra l’unione civile e l’istituto del matrimonio, tanto da far ritenere che il monito della Corte costituzionale abbia ottenuto piena risposta.
Ad esempio, con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dall’unione deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni5.
Tra le tutele e le garanzie accolte nella normativa, prima del tutto assenti, si rintracciano: la possibilità di applicare le disposizioni in tema di reversibilità del trattamento pensionistico anche al partner superstite, l’applicazione della normativa in materia di successioni, l’operatività delle norme sul divorzio6, l’opportunità di accedere al regime patrimoniale della comunione dei beni o ad altro regime prescritto dalla legge7.
Da non trascurare, inoltre, anche la possibilità conferita all’autorità giudiziaria di adottare con decreto uno o più dei provvedimenti d’urgenza (ad es. allontanamento dall’abitazione) quando la condotta della parte dell’unione civile è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altra parte8.
Recependo pienamente l’orientamento della Consulta, oggi è consentita anche l’applicazione della disciplina dell’unione civile, regolata dalle leggi italiane, alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio9.
In sostanza, il nostro ordinamento ha adottato un modello pluralistico di famiglia.
Le questioni ancora irrisolte
Tra le questioni ancora dibattute, e che formeranno ancora, nel tempo, oggetto di aspri contrasti politici e sociali, vi è l’impossibilità per le coppie omosessuali di accedere ad altri particolari istituti come, ad esempio, alle pratiche di adozione. In particolare, la Legge Cirinnà esclude tale opportunità, confermando l’impostazione assunta dalla stessa Legge sulle adozioni10, la quale espressamente ammette alle pratiche adottive i soli “coniugi”, uniti dal vincolo del matrimonio. Si tratta di un tema molto delicato, basato su equilibri precari ed instabili, in quanto, come è noto, si fonda su convinzioni ed inclinazioni personali di natura etico-morale.
Ma è possibile per i soggetti, uniti in unione civile, portare in Italia un bambino nato all’estero con la pratica della maternità surrogata ed adottarlo? Quali potrebbero essere le conseguenze? A rispondere, ci ha pensato la Corte Costituzionale.
La Consulta interviene sul tema delle adozioni
I Giudici della Consulta hanno ribadito, in via di principio, in una nota sentenza11, che “il progetto di formazione di una famiglia, caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione”.
La Corte è intervenuta sull’adozione “in casi particolari”12 di minori nati all’estero con la pratica della maternità surrogata (di cui abbiamo già parlato qui) e condotti, successivamente, in Italia dai genitori d’affezione ed uniti nel vincolo dell’unione civile.
Ebbene, nella pronuncia13, la Corte ha osservato che la questione deve focalizzarsi sui “migliori interessi” del bambino nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale o eterosessuale), che abbia condiviso il percorso che va dal suo concepimento, in un paese in cui la maternità surrogata è lecita, fino al suo trasferimento in Italia, dove la coppia si è presa quotidianamente cura del bambino. In questa situazione l’interesse del minore è quello di “ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che nella realtà fattuale già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”. La sentenza aggiunge che “questi legami sono, (…), parte integrante della stessa identità del minore, che vive e cresce nell’ambito di una determinata comunità di affetti; il che vale anche se questa comunità sia strutturata attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, poiché l’orientamento sessuale non incide di per sé sull’idoneità ad assumere la responsabilità genitoriale.
In tali casi, inoltre, il minore ha un interesse, non trascurabile dall’ordinamento, a vedere affermata in capo ai genitori d’affezione i doveri e le connesse responsabilità legate alla posizione di genitore.
Con un’ulteriore e recente pronuncia (la sentenza n. 79/2022), i Giudici hanno evidenziato, nuovamente, la necessità di garantire l’instaurazione di stabili vincoli familiari ed affettivi tra il minore nato all’estero con la pratica della maternità surrogata e tutti i componenti della famiglia di adozione, sempre garantendo, così, i best interest del minore.
Bisogna, a questo punto, chiedersi se tali sentenze, che, in qualche modo, hanno individuato un viatico per il riconoscimento della pratica adottiva a soggetti omosessuali che abbiano fatto riscorso alla maternità surrogata, possano creare i presupposti per un dibattito di più ampio respiro sul tema generale dell’accesso all’adozione anche ai soggetti uniti civilmente in Italia e che non abbiano alcuna intenzione di ricorrere alla pratica della maternità surrogata.
Ai posteri l’ardua… legge.
- Art. 29 Costituzione Italiana; ↩︎
- Corte Costituzionale, sent. n. 138/2010; ↩︎
- Corte Costituzionale, sent. n. 10/2024, oggetto di commento nell’articolo “L’amore al tempo della pena”; ↩︎
- Art. 1 comma 1, Legge n. 76/2016; ↩︎
- Art. 1 comma 11, Legge n. 76/2016; ↩︎
- Art. 1 comma 23, Legge n. 76/2016; ↩︎
- Art. 1 comma 13, Legge n. 76/2016; ↩︎
- Art. 1 comma 14, Legge n. 76/2016; ↩︎
- Art. 1 comma 28, Legge n. 76/2016; ↩︎
- Legge 4 maggio 1983, n. 184 – Diritto del minore ad una famiglia; ↩︎
- Corte Costituzionale, sent. n. 162/2014; ↩︎
- Art. 44, lett. a) e d), Legge n. 184/1983; ↩︎
- Corte Costituzionale, sent. n. 33/2021; ↩︎