“La questione palestinese non è nata il 7 ottobre, non prendiamoci in giro. La questione palestinese è nata nel 1948”.
Sono le parole di Jamal Qaddorah, una delle voci della diaspora palestinese in Campania. Abbiamo deciso di intervistarlo, perché anche la presenza della questione palestinese nel tessuto della città di Napoli non è iniziata sei mesi fa, ma negli anni 90′.
Jamal Qaddorah vive a Napoli da più di quarant’anni. Di una famiglia originaria della città di Ramla, oggi situata in Israele, è un profugo palestinese dalla nascita. Pur essendo cresciuto in Giordania, Jamal, così come tanti altri, mantiene un legame indissolubile con la propria terra.
Come lui, molti degli integranti della comunità si sono stabiliti permanentemente a Napoli quando, dopo aver terminato gli studi, nel 1998 l’Unione degli Studenti Palestinesi diventò la Comunità Palestinese Campana. Una comunità di circa 60 persone che oggi non è composta più soltanto da studenti, ma da medici, imprenditori, sindacalisti, e professionisti.
Italiani, anzi napoletani, accomunati dall’avere le proprie origini in una terra che da sempre è un simbolo non solo di sofferenza, ma anche di resistenza.
Jamal ripercorre la lunga storia di oppressione, di espulsioni forzate che ha colpito il popolo palestinese negli ultimi 75 anni. Il primo esodo è quello del ‘48, anche detto la Nakba (lett. la catastrofe), durante il quale 750.000 palestinesi furono espulsi dal 78% del territorio della Palestina storica. Poi nel 1967, la guerra e conseguente occupazione dei territori di Gaza e della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano. Nel 1982 la guerra segue i palestinesi anche fuori della Palestina, con l’invasione israeliana del Libano, che si conclude con il terribile massacro di migliaia di profughi palestinesi inermi ad opera dell’esercito israeliano e degli alleati falangisti libanesi (su quest’ultima guerra è da vedere il documentario di Ari Folman, Valzer con Bashir).
Gli anni ’90 si inaugurano con gli accordi di pace tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo israeliano, un processo lungo e difficile che si conclude con la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). L’istituzione di un’entità nazionale palestinese per governare sui territori occupati fu accolta come un fallimento dei negoziati che non riuscirono a garantire né la creazione di uno stato vero e proprio, né la fine dell’occupazione. Il malcontento suscitato dall’adozione di una posizione più pragmatica da parte dell’OLP favorisce in questo periodo l’emergere di gruppi più radicali, tra cui anche gruppi d’ispirazione islamista.
“Jamal, forse ti sembrerà una domanda banale, forse in molti te l’avranno fatta, ma come ti poni rispetto al 7 ottobre?”
“Se tu prendi qualsiasi palestinese che vuole difendere la Palestina, nessuno condannerebbe il 7 ottobre”
Da persona di sinistra e sindacalista, Jamal non condivide nulla della politica di Hamas, ciononostante non ne condanna l’operato. Da anni è responsabile dell’immigrazione per la CGIL Napoli e Campania ed oggi è coordinatore dell’INCA. La sua priorità oggi è fermare la guerra e costruire la pace che consiste nella fine dell’occupazione israeliana e nella creazione di uno stato palestinese laico, dove persone di ogni religione possano convivere.
La violenza di Hamas, dalla sua prospettiva, è il risultato di più di 75 anni di oppressione, una realtà che si è radicata a Gaza a causa di una serie di fallimenti politici e del trauma di una generazione di ragazzi cresciuti in una prigione a cielo aperto. Un ciclo di violenza e vendetta che continua a ripetersi e che va interrotto per il benessere dei popoli israeliano e palestinese.
Perché allora il governo israeliano non ha davvero provato a distruggere Hamas fino all’ottobre 2023?
La generazione di Jamal, cresciuta con gruppi di resistenza palestinese d’ispirazione comunista e socialista, ricorda bene come il clima politico sia cambiato verso la fine degli anni ’80. Prima della fine della Guerra Fredda, l’obiettivo principale di Israele e Stati Uniti era evitare la diffusione di idee e gruppi di ispirazione comunista che potessero minare le basi del blocco occidentale. In quel periodo, i gruppi di ispirazione islamista erano considerati un nemico minore perché non minavano gli interessi strategici del blocco. Anzi la presenza dei gruppi islamisti risultava utile perché confermava la narrazione che il conflitto in Israele/Palestina fosse un conflitto tra ebrei e musulmani, piuttosto che una questione di apartheid e occupazione. Per continuare a tenere il popolo palestinese diviso, il governo israeliano ha appoggiato l’ascesa di Hamas negli ultimi due decenni, chiudendo un occhio sui flussi di denaro provenienti da Iran e Qatar, e fomentando le divisioni tra gruppi laici ed islamisti.
“Se fossimo tutti pacifisti, Israele non avrebbe nessuna giustificazione. Sembra che Israele non voglia fermare la guerra, perché se Israele fermasse la guerra, cadrebbe il governo dei coloni.”
Secondo questa interpretazione dei fatti, Israele non ha nessuna intenzione di porre fine alle ostilità perché significherebbe accettare che il popolo palestinese non scomparirà e che pace significa giustizia e compromesso. Al contrario il nemico palestinese, ieri incarnato da Fatah (partito d’ispirazione socialista) e oggi da Hamas, permette ad un governo di destra di continuare a giustificare politiche di apartheid e di rimanere al potere.
Il 29 ottobre 2023, due giorni dopo l’inizio dell’operazione terrestre delle truppe israeliane a Gaza, ENI ottiene – insieme ad altre compagnie occidentali – la licenza per esplorare il gas nel Mediterraneo orientale.
Ma non si tratta solo del gas, si tratta anche della vendita di armi. Secondo il Sipri, Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Italia sono i paesi che forniscono il maggior numero di armi ad Israele. Solo a dicembre 2023, l’Italia ha venduto 1.41 milioni di euro in armi, un numero tre volte superiore rispetto a dicembre 2022.
“Il gas è nostro, non di Israele. Da questo punto di vista è una questione economica. E gli interessi economici sono parte dell’ipocrisia occidentale. Quando adesso [i governi occidentali] parlano di diritti umani, noi ci mettiamo a ridere.”
Il popolo palestinese costituisce un ostacolo allo sfruttamento della terra da un punto di vista economico da parte non solo di Israele ma di tutto il blocco occidentale. L’ipocrisia occidentale è quella dei governi che predicano democrazia e libertà mentre si rifiutano di fermare la guerra in corso, evitando di imporre sanzioni economiche ad un paese che si rifiuta di rispettare un cessate il fuoco imposto dall’ONU e dalla CIG.
Quale ruolo può avere dunque la solidarietà internazionale e il supporto dell’opinione pubblica globale alla causa palestinese?
“Io penso che c’è il blocco occidentale e poi c’è l’Occidente. L’Occidente è la cultura, i napoletani, quelli solidali, il popolo che sta con noi.”
Jamal si riferisce alle tende piantate a piazza del Gesù nel 2002, ai 29 giorni di sciopero della fame, il gemellaggio tra Napoli e Nablus, le iniziative di solidarietà, i centinaia di bambini palestinesi che dal ‘93 a oggi sono stati operati negli ospedali napoletani.
“In questa città la solidarietà alla comunità palestinese non è mai mancata. Napoli non ti fa sentire straniero, al di là della tua provenienza. Fuori discussione.”
Da mesi ormai diverse reti e realtà napoletane hanno organizzato ed appoggiato la comunità palestinese, scendendo in piazza ogni fine settimana, occupando l’università, protestando davanti alla sede della Rai e partecipando al concerto Life for Gaza, tramite il quale sono stati raccolti più di 62.000 euro.
L’obiettivo di questa mobilitazione? Che le università, così come altri luoghi di potere, smettano di essere complici del massacro in corso.
“Se non parliamo del popolo palestinese adesso presto ne potremo parlare solo al passato” afferma Jamal spiegando che per i palestinesi della diaspora napoletana una cosa è chiara: non è possibile parlare di ciò che sta succedendo oggi in Palestina senza parlare di una storia molto più lunga di violenza ed espulsioni. Così come di una storia di lotta e resistenza.
“Mi rende orgoglioso che, nonostante la sofferenza, nonostante tutti i massacri che abbiamo avuto, abbiamo ancora la radice nella nostra terra”
Il legame con la terra, una terra martoriata dalla violenza, è uno dei valori più radicati della cultura palestinese. Ed è forse uno dei motivi per cui la causa palestinese è qualcosa che risuona nel cuore di così tante persone anche su quest’altra sponda del Mediterraneo.
Così come molti napoletani che scelgono di restare o di tornare nonostante tutto, la popolazione gazawi resiste perché non vogliono ancora una volta essere costretti a lasciare la propria terra e ad emigrare.
“Jamal che cosa ci può insegnare la Palestina oggi?“
“La Palestina oggi insegna la giustizia, la libertà. La questione palestinese sta diventando una questione di tutti gli oppressi. Non è un patrimonio del popolo palestinese. Ne sono convinto anche dopo 40 anni di militanza. Io non appartengo a nessuna frazione o partito palestinese, io sono palestinese, punto.”
E allora non basta annientare Hamas, che se non si chiamerà Hamas avrà un altro nome, ma continuerà a risorgere dalla sofferenza ed il risentimento di un popolo oppresso. Non ci può essere una soluzione militare al conflitto, così come è inutile porre fiducia nel governo statunitense, nei governi europei o i governi arabi perché nessuno di loro ha un reale interesse nella creazione di uno stato palestinese.
La forza sta nell’agitazione popolare, perché solo l’opinione pubblica può costringere i governi a rispettare gli accordi internazionali e di conseguenza ad imporre che Israele stesso li rispetti e che metta fine ai bombardamenti.
Illustrazione di Giorgia D’Emilio