Shaed sembra una Pietà al femminile, con una terza martire: c’è il volto rugoso di Tarlan, insegnante di danza in pensione e attivista; tra le sue braccia il corpo livido della ballerina Zara, figlia non di sangue ma d’anima, che non è riuscita a salvare dall’ottusa violenza del marito . Ai piedi di Zara, la figlia GhazalUnica senza velo.

Siamo al festival Venezia a Napoli, il cinema esteso.

Il regista iraniano Nader Saeivar invia un video messaggio trasmesso prima della proiezione della pellicola: Shahed (The Witness), (trad. ita, La testimoneè una missione artistica. Abbiamo la possibilità ora di conoscere i fatti in Iran attraverso i social, e quindi che così sia. Parlatene con gli amici.

Con Shahed, Saeivar riporta in vita i corpi e le voci mutilate delle donne iraniane, attraverso tre generazioni che inciampano costantemente nell’ipocrisia della loro politica . Eppure la protesta è in costante moto, quello di Ghazal, reincarnazione poetica della danza della madre e di quelle donne alla riconquista della propria persona. In perfetto sincrono col movimento Donna, Vita, Libertà: che più di quel che si pensi, è sempre un passo avanti al regime repressivo iraniano.

Il festival Venezia a Napoli. Il cinema esteso, ideato da Antonella Di Nocera, nasce da un profondo desiderio di avvicinare Napoli ad un cinema diverso, lontano dai circuiti di distribuzione commerciale, dalla necessità di promuovere quella cultura che mira a formare le persone per creare una solida base collettiva.

In collaborazione con la Mostra del Cinema di Venezia, la rassegna offre da ben quattordici anni, opere internazionali spesso invisibili al di fuori dei grandi festival, riuscendo a organizzare una selezione accurata in tempi strettissimi e con risorse limitate.

Quest’anno cattura l’attenzione la sezione PLUS, che amplia l’idea di cinema esteso includendo film provenienti da eventi prestigiosi come il Sundance, Berlinale, Cannes e Locarno.

Ed è in  quest’ultimo festival, che viene presentato Luce.

Di Silvia Luzi e Luca Bellino, Luce (Italia, 2024), è solitudine, aspirazione ad una vita migliore, desiderio di libertà. È la storia di una donna rinchiusa in una fabbrica di pellami, incastrata in un freddo, isolato Sud Italia, in una monotonia che si srotola nell’attesa che qualcosa accada. La sua esistenza viene interrotta da conversazioni telefoniche con un padre cui realtà è ambigua e potrebbe essere frutto della sua immaginazione.  

I registi ritornano ad essere maestri di ciò che per loro è profondamente famigliare: l’umano che cerca di non annegare nell’alienazione e nell’ignoranza. Hanno scelto ora di affidare questo tumulto ad una commovente donna, che nel tentativo disperato di rimanere fedele a sé stessa, si perde.

Marianna Fontana è la protagonista assoluta senza nome, dal volto vitreo e contenente tutte le sfaccettature dell’umanità insieme.

È colei che si cura col sale, le mani macerate dai ritmi serrati della pelle, che con voce timida ed eccitata, chiede al telefono a quel padre: Ma davvero sei contento se parliamo?

È l’eco della litania che richiama a sé la gattina scomparsa Molly, ma non sa come farlo. Dopo tutto, anche lei s’è smarrita.

Ma i gatti tornano a casa se lasci loro il latte fuori la porta, le dicono.

Molly non fa ritorno, ma Lei si: trangugiando un cartone di latte.

Venezia a Napoli si fa custode di una visione, un crocevia di mondi e coscienze. Il linguaggio cinematografico incarna l’urgenza dei diritti umani e civili, ogni proiezione si offre come specchio critico della contemporaneità, offrendo a tutti la possibilità di dar vita ad un tessuto sociale più vasto, profondo.

“Un desiderio?” chiedo ad Antonella Di Nocera. “Che Napoli abbia una casa del cinema,” risponde.

Ad oggi sono case sono sparse, ma numerose, come le famiglie che scegliamo. E così, tanta è anche la bellezza e, grazie anche a questo festival, possiamo scegliere di vivere oggi, con una non scontata libertà e consapevolezza.

Fotoreportage a cura di Kristel Pisani Massamormile

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