Piove, ma nessuno accenna a muoversi. Durante una delle tante presentazioni in città del nuovo libro di Massimiliano Virgilio, le teste sono rivolte al banchetto, antistante la libreria Langella, promotrice dell’incontro, e nessuno appare demotivato dalle gocce d’acqua che iniziano a cadere. Una forma di resistenza, forse, lungo la via dei libri che oggi si sta trasformando per via dei numerosi locali di ristorazione che hanno aperto negli ultimi tempi. La presentazione inizia dopo poco, nella libreria Amodio difronte, che apre le porte ad un gruppo di lettori così accaniti da portare uno ad uno la propria sedia per sentire parlare di “Luci sulla città: un’inchiesta per Matilde Serao”. Un giallo, una biografia, un romanzo storico. Un libro che racchiude in se’ una commistione di generi e una complessità che si sposa bene, con il personaggio di Matilde, una donna dalle molteplici sfaccettature e conflitti, che attraverso l’inchiesta messa in piedi da Virgilio ci permette di riflettere sul giornalismo contemporaneo.
Perchè Matilde Serao?
Perchè mi ha sempre affascinato la sua complessità. L’ho scoperta durante un’estate della mia adolescenza e me ne sono innamorato. Era una donna di potere, giornalista, imprenditrice e madre. Aveva in se’ molto contraddizioni. Basti pensare che se con “Il ventre di Napoli” aveva accusato il potere dello sventramento della città, svelando il lato speculativo della politica, durante le estati era solita recarsi in Piemonte in cerca di finanziamenti, che l’hanno spinta spesso a compromessi nella linea editoriale.
Complessità o ipocrisia?
Complessità. Non si può guardare ad una donna dell’800′ con le categorie di oggi. E poi, nelle contraddizioni di Matilde Serao c’era movimento vitale. Possedeva tesi e antitesi. Riusciva ad essere fertile e a creare consapevolezze nel lettore. Era alla ricerca della verità, ma ha vissuto un momento storico in cui la stampa non era veramente libera.
Pensi che oggi sia libera?
No. C’è stato un momento in cui lo è stata maggiormente, precedente a quest’ondata populistica che ha dato in pasto al mercato ogni libertà di stampa. Parlo del periodo dal dopoguerra agli anni duemila, quando attraverso i finanziamenti pubblici, con tutti i limiti e gli ingiustificati privilegi che ha generato, ci siamo avvicinati al pluralismo informativo.
Questo libro rianima il fascino e il valore del mestiere. Si può ancora guardare al giornalismo come missione sociale?
Oggi esistono molte brave giornaliste e giornalisti davvero bravi, persino nei mezzi di informazioni più asserviti, quindi non bisogna mai generalizzare. Però la situazione non è di certo la migliore per un paese sviluppato. Ci vorrebbero innanzi tutto grandi giornalisti ed editori in grado di valorizzarli. La situazione dei giornali oggi è così complicata che, per quanto triste, forse la ricerca della verità bisognerebbe condurla al di fuori dai giornali. C’è un’infiltrazione tra il mondo dell’impresa e il mondo del giornalismo che fa rabbrividire. Non puoi dire che i clic o gli stream corrispondono al numero di lettori, né che i clic o gli stream sono una libera scelta del lettore perché gratis. Ogni volta che qualcosa ci viene presentata come gratuita, in realtà non sappiamo che la stiamo pagando in un altro modo. Oggi chi decide di raccontare lo fa in autonomia. È un lavoro che richiede un grande investimento su se stessi.
Che cosa spinge a fare questo investimento?
Non vale per tutti, ma credo che l’ambizione di un giornalista sia generare un cambiamento attraverso la parola. I più grandi cambiamenti sociali sono avvenuti attraverso le parole, attraverso la capacità che ha qualcuno di far cambiare lo sguardo su una questione.
Come Matilde Serao che non si rassegna alla versione dei fatti sulla morte del socialista Carlo Montanari ?
Si, come Matilde Serao che va per tuguri e non si rassegna alla quiescienza e al torpore esterni e si mette a scavare. Il cambiamento passa attraverso il conflitto. Il potere da sempre utilizza l’escamotage della quiescenza, è pericoloso vivere tra parole accondiscendenti, che non raccontano l’orrore o il dolore.
Ad un certo punto scrivi che Matilde si è imborghesita, che è aumentata la distanza tra lei e il territorio. Quando c’è quella distanza dovuta al linguaggio, può un giornalista veramente comprendere?
Ma si, secondo me un vero giornalista fa proprio questo, ha sempre a disposizione degli strumenti culturali, o borghesi, se vuoi, da mettere in gioco nel contesto che vuole raccontare. Sono strumenti che appartengono alle varie forme di intelligenza: emotiva, educazione politica, sociale. Matilde Serao aveva lavorato come telegrafista alle poste del Regno d’Italia ed era entrata in contatto con quel mondo povero, dove le donne erano un oggetto, quindi lei aveva vissuto la povertà e sapeva che cosa significava da dentro. Però i giornalisti non possono vivere tutti i contesti che raccontano e questo non sminuisce o non rende impossibile il loro lavoro. Bisogna avere quella cosa che affermava Emily Dickinson quando diceva “la foggia della tua croce somiglia un po’ alla mia”. Deve esserci quella somiglianza della foggia della croce che portiamo.
Qual è la tua croce?
Credo che abbia a che fare con una forma di smarrimento dell’infanzia e dell’adolescenza. Provo a riconoscere quello che nelle fasi di una vita porta a deviare un percorso in modo inequivocabile e netto rispetto a quello di altri. Provo a capire sempre quale sia il momento in cui un giovane possa smarrirsi. Vivo una città dove la parte fortunata e la parte sfortunata stanno nello stesso palazzo. Io sono nato in un lato complicato, quando scrivo inseguo la croce di chi si è perso per condividerne un po’ il peso.
Che cosa servirebbe per fare luce sulla città che viviamo oggi e anticipare le deviazioni dai percorsi?
Napoli sta cambiando ma senza un vero conflitto, attraverso una tendenza che si era già vista dopo il terremoto, cioè la volontà di espellere le masse popolari dai quartieri che hanno storicamente abitato. La peste del ventunesimo secolo non è il covid, ma il turismo di massa, che sta creando danni incredibili all’abilità e sta lasciando sempre più spazio alla criminalità organizzata, alimentando lo sfruttamento e il lavoro a nero. Quello che è accaduto a Scampia quest’anno non è legato solo ad una questione spaziale, ma sociale, ma al fatto che molte famiglie lì, come a Caivano o Ponticelli, non hanno diritto ad alloggiare. Nessuno fitterebbe loro una casa. Questi quartieri poi sono da sempre carenti dal punto di vista dei servizi e le condizioni di povertà in cui vertono molte famiglie si stanno aggravando, mentre Napoli sta diventando un commercio di corpi e bellezza fittizia e si stanno sradicando le radici profonde della cultura di un popolo che per essere tutelate dovrebbero manifestarsi nella vita quotidiana, nell’atto dell’abitare.