Vent’anni per le periferie di Napoli: Ponticelli, Afragola, San Giovanni, Barra , Scampia e Caivano. Così Paolo Manzo rende visibili i lati oscuri della città di Napoli nel suo lungo reportage La Città Invisibile, esposta a Perpignan dal 2 al 15 settembre.Sotto i riflettori francesi arriva la povertà, madre della criminalità, sorella di giovani vite spezzate , figli abbandonati in un territorio che versa lacrime su un destino segnato.

La Città Invisibile, il tuo lavoro ormai quasi ventennale sulle periferie di Napoli viene esposto in Francia, al Festival Visa Pour L’Image, dopo aver vinto il premio Pierre & Alexandra Boulat. Quale credi che sarà l’impatto della tua mostra?

Meraviglia. L’anno scorso quando sono stato a Perpignán a ritirare il premio ho riscontrato un grande stupore da parte della giuria: nessuno immaginava che a Napoli potesse comporsi di immagini così forti.

Non si aspettavano che Napoli fosse una città violenta?

No, non si aspettavano che ci fosse così tanta povertà, abbandono e dolore. La violenza in fin dei conti, al di là dei fenomeni camorristici, è diffusa in molte città europee, ma il livello di degrado dei territori che compaiono nelle mie fotografie forse era inatteso.

Che cosa ti ha spinto a fare un lavoro così lungo e a dedicarti così profondamente a queste storie?

Sono storie in cui mi riconosco, mi riguardano. Sono figlio di quei territori. Ho avuto la fortuna di viverli da dentro, ma di poterli comprendere da fuori cogliendo l’importanza di accendervi sopra i riflettori.

Pensi che le tue fotografie possano contribuire ad avere un impatto sul destino che avvolge quei luoghi e quelle vite?

Credo che questo sia esattamente questo il ruolo della stampa: avvicinarsi e raccontare con profondità e trasparenza le realtà invisibili per stimolare l’attenzione pubblico verso il disagio e contribuire ad un cambiamento. Ma il giornalismo sta perdendo sempre di più questo potere, sia dall’alto che dal basso. Perde terreno e fiducia. Io riesco ancora ad avvicinarmi a queste storie perché ci sono dentro. Racconto queste storie così come vivo la mia in prima persona con un sentimento di appartenenza e l’ostinazione che il mio lavoro contribuisca a cambiare il destino di molti, soprattutto giovani.

Di fatto, di che cosa avrebbero bisogno questi territori per sovvertire dinamiche di violenza ataviche?

Non sono ataviche, nascono per dei fattori specifici che non vengono debellati: la ghettizzazione dei territori, l’assenza di lavoro, l’abbandono scolastico, la complicità tra Stato e criminalità organizzata nei mercati illegali. Bisogna avere la volontà di agire, arginare, risanare. Soprattutto bisogna scendere per le strade e parlare con chi vive immerso in questi scenari complessi e capire come intervenire. La politica non si fa solo in un ufficio, nè attraverso l’avanguardia della tecnologia. Queste comunità hanno bisogno di essere prese per mano e non si può neanche pensare di affidare questo compito alle sole associazioni, che ad oggi hanno avuto un ruolo, seppur spesso brillante, ma di puro ammortizzatore.

Temi che le tue fotografie possano alimentare forme di spettacolarizzazione e mitizzazione della violenza ?

Potrebbero. Non posso controllare la proiezione che un ragazzino farà sulle mie immagini, ma posso augurarmi che la lucidità con cui porto avanti i miei racconti li aiuti a guardarsi dall’esterno, com’è accaduto anche a me. Prendere una macchina fotografica è un modo di reagire e cambiare strada, ma ce ne sono tanti altri. Spero in qualche modo di contribuire alle consapevolezze che li indurranno a prendere in mano le proprie vite.

Quindi esiste la possibilità di scegliere secondo te oppure chi finisce nel vortice della criminalità è vittima di un sistema ?

Sono vere entrambe le dimensioni. Ogni storia è a sè e ognuno è fautore del proprio destino, ma è mai possibile che tante storie si ripetano in maniera così simile ? Tante morti così giovani ad esempio, tante vite spezzate dal carcere. È inevitabile pensare che ci siano forti responsabilità dall’alto. D’altro canto in questi anni ho capito che tutte le scelte sbagliate, se così le vogliamo definire, nascono dall’assenza di strumenti. Come non considerare che molte persone in questi territori non sanno né leggere né scrivere?

Ora il tuo lavoro sarà esposto in Francia, sotto i riflettori dei grandi nomi del giornalismo internazionale. Che impatto potrà avere questo sguardo estero sulla nostra città ?

Mi auguro che le istituzioni si sentano nude e provino quell’imbarazzo e quella vergogna necessarie a non girarsi più dall’altra parte.

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