Ci sono cose di cui non sappiamo che fare e allora le chiudiamo in una scatola. Si tratta di ciò a cui non sappiamo restituire un posto nel nostro mondo, che diventa facilmente archiviabile . Serve a salvaguardarci dal disordine o meglio dal caos in cui ci si imbatte quando si entra in contatto con tutto ciò che non si identifica.
Quel caos però a qualcuno piace portarlo per le strade e restituendo a chi ne è travolto una gioia esplosiva.
La Banda Basaglia è nata per accogliere nella musica chiunque abbia voglia di esserne parte. Così come nella visione del medico psichiatra Franco Basaglia, da cui prende il nome, si è formata per contrastare ogni forma di emarginazione e barriera sociale e per creare uno spazio di incontro attraverso la musica.
“Esistono forme di crudeltà inutili, che sono la manifestazione dell’uomo di relazionarsi all’altro da sé, come i manicomi.” afferma Renato, psichiatra in pensione, membro della banda dal 2016 e prosegue: “Noi attraverso la musica attuiamo una pratica sociale inclusiva, un’idea di libertà che è un impegno rispetto al pensiero basagliano volto a rompere le cornici della psichiatria, spesso trasformate in stigmi.”
“Avete mai accolto in banda una persona con disabilità o malattia psichica?” domando.
“Non lo so, è possibile. Non siamo soliti chiedere certificati di diagnosi a chi si avvicina a noi. Qui si accoglie senza filtri.” risponde Elisabetta Riccardi, clarinetto e fondatrice della banda insieme al fratello Ciro, trombettista.
Non si paga per imparare a suonare, non si paga per avere accesso ad uno strumento. Ci si incontra nelle rispettive disponibilità e si costruisce insieme un percorso.
Così si pratica la relazione, quella che richiede uno sguardo sempre nuovo e libero di pregiudizi basato su una forte voglia di stare insieme, di cui l’energia musicale è solo il risultato finale.
“Si può entrare in relazione con la follia, comprenderla e riconoscersi in qualche aspetto?” domando.
” E altrimenti che ce ne facciamo? La chiudiamo in una scatola e ce ne dimentichiamo?” risponde Renato e prosegue: “La follia è un condizione umana ed è una difesa dal dolore, se si arriva ad uno stato “folle” è perchè quella è l’ultima difesa. Il delirio, l’allucinazione sono spesso modi per contrastare l’istinto di morte. Ce ne possiamo prendere cura in tanti modi di tutto questo dolore. La Banda Basaglia è la metafora di una gioia terapeutica.“
Ma di terapie improntate all’accoglienza dell’essere umano in tutte le sue sfaccettature ce ne sono poche.
“E’ più semplice contenere piuttosto che farsi carico della sofferenza” dichiara Antonio Esposito ricercatore in bioetica e specializzato in salute mentale e continua: “siamo una società che rifiuta la complessità non in nome della semplicità, ma della banalizzazione all’interno della cultura in cui siamo immersi che vede al centro biologia e chimica piuttosto che considerare le componenti sociali e psicologiche che determinano l’individuo. Per questo prevale l’approccio farmacologico o da manuale.”
“Perché dovrebbe rappresentare un problema l’approccio farmacologico?”
“Non è un problema di per sé e in molti casi è un approccio necessario. Ma spesso rappresenta un modo per affrontare più facilmente il problema, arginarlo e non risolverlo. Il rischio è che dimensioni sempre più vaste vengano inquadrate nella patologia, magari dimensioni di disagio dovute al contesto sociale . La follia è un’esperienza che evade la norma. Aspetti del nostro vissuto possono assumere o meno le connotazioni della follia sulla base di ciò che viene considerato in quel momento storico razionale o irrazionale dalla società. Basti pensare alla percezione dell’omosessualità o all’isteria e a tutti gli internamenti che ne sono stati la conseguenza. Oggi si silenzia il sintomo nelle sue forme più fastidiose, piuttosto che accogliere le differenze. Basti considerare che in Italia si investe il 3% della spesa sanitaria nella cura psichiatrica, laddove ci vorrebbero una pluralità di figure specializzate per andare oltre il manuale, ma soprattutto si dovrebbe fare prevenzione attraverso il contesto sociale.”
La prevenzione si basa in parte sulla pratica della differenza, che consente ad ogni singolarità di emergere all’interno di legami relazionali e sociali. Ne deriva come conseguenza che la posizione della Banda Basaglia, con le sue forme di libertà applicate in ogni aspetto della gestione del complesso musicale, sia una posizione politica.
“Abbiamo creato un luogo di incontro dove tutti hanno diritto di essere. Siamo talmente lontani da ciò che abbiamo attorno a noi, che sembra quasi una dimensione onirica, una fuga dalla realtà.” afferma Renato.
E così come la Banda Basaglia, altre realtà musicali attraverso gli strumenti attuano forme di partecipazione e prendono posizioni politiche. Lo abbiamo visto ad inizio giugno, quando otto bande italiane ed europee sono confluite a Napoli in occasione del centenario di Franco Basaglia, suonando insieme per le strade della città e dando forma a Sbandanapoli, l’evento nato da un’iniziativa iniziativa di Bruno Esposito, trombettista e membro della Banda Basaglia dal 2016.
Dopo aver ricostruito un nuovo Marco Cavallo, la struttura in legno e in cartapesta, metafora di utopia e liberazione attraverso la partecipazione del Carnevale di Montesanto e di vari laboratori sociali, le bande si sono riversate per le strade di Napoli e si sono esibite presso lo Scugnizzo Liberato creando un momento di grande partecipazione in città.
L’evento ha rappresentato l’occasione per riflettere sul tema della salute mentale e sull’approccio dogmatico e carente del sistema sanitario ripercorrendo il pensiero di Basaglia e il suo legame con lo psichiatra Sergio Piro, attraverso le parole di Antonio Esposito, Teresa Capocchione, Dario Stefano Dell’Aquila ed Elisabetta Riccardi.
Hanno aderito all’iniziativa: la Scalzabanda di Napoli, la Fanfarona e la Titubanda di Roma, i Fiati Sprecati di Firenze, la Strampalabanda di Torino, gli Ottoni a scoppio di Milano e i Fiattelle Brass Tiraden di Dresda.
Per scoprire Sbandanapoli guarda il video reportage a cura di Nina Jotti:
Questo testo è stato scritto con il supporto delle interviste di Gina Muoio, tirocinante della testata.
*Le immagini nel testo sono frame del reportage.