Quali sono le leggi che governano il mercato del lavoro e impattano sulle nostre vite?
Il mondo del lavoro è una ragnatela in cui siamo imprigionati, volontariamente o meno, ma di cui raramente abbiamo contezza: nasciamo, cresciamo, lavoriamo, moriamo. La maggior parte di noi spende una parte sostanziale della propria vita a preoccuparsi del lavoro: cercarlo, trovarlo, farsi assumere, compierlo, lasciarlo – ripeti il processo. Anche studiare, spesso, è finalizzato ad acquisire le conoscenze per avvicinarsi a un certo tipo di professione.
Il lavoro ci permette di consumare, di avere degli obiettivi o di sentirci realizzati; ci fa sentire frustrati, ingabbiati; l’assenza di lavoro può metterci ansia, depressione, può farci sentire inadeguati. Il mondo del lavoro ha un impatto sul nostro piccolo mondo personale, ma anche su altri mondi paralleli, ben più grandi di noi: disuguaglianze, discriminazioni, benessere economico; tutti fattori influenzati dal mercato del lavoro e che a loro volta colpiscono di rimando la nostra sfera individuale.
Per questo motivo è necessario capire il funzionamento del mercato del lavoro e dei fenomeni legati ad esso.
Che cos’è il “mercato del lavoro”?
Come tutti i mercati è il luogo astratto dove domanda e offerta – di lavoro in questo caso – si incontrano. Per definire offerta e domanda di lavoro dobbiamo introdurre gli attori che le rappresentano, e che sono fondamentali nella nostra storia: da un lato i lavoratori, dall’altro le imprese.
Come lavoratori, giochiamo un ruolo di primo piano in questa storia. Senza di noi, dopotutto, non ci sarebbe “lavoro” nel mercato, e quindi nessun mercato. Decidiamo se lavorare o meno, quante ore lavorare, quali competenze acquisire, quando lasciare un lavoro, quanto impegno dedicarvi, in quali occupazioni entrare, se aderire o meno a un sindacato del lavoro. In questa storia, tutte le nostre scelte sono finalizzate a massimizzare il nostro benessere. L’offerta di lavoro rappresenta quanto siamo disposti a lavorare per un certo compenso: in genere, tendiamo a offrire più lavoro per quelle attività che ci garantiscono benefici più alti.
Le aziende sono co-protagoniste – talvolta antagoniste – nel nostro racconto. Ogni azienda deve decidere quanti e quali tipi di lavoratori assumere e licenziare, la durata della settimana lavorativa, quanto capitale impiegare e se offrire un ambiente di lavoro sicuro o rischioso ai propri dipendenti. Come i lavoratori, anche le aziende nel nostro racconto hanno degli obiettivi. Spesso assumiamo che le aziende desiderino massimizzare i profitti; lo faranno prendendo decisioni di produzione – assumendo e licenziando – che meglio servono le esigenze dei consumatori, e di conseguenza le loro. In effetti, la domanda di lavoro dell’azienda è una domanda derivata dai desideri dei consumatori ed è la quantità di lavoro che le imprese cercano di ottenere durante un determinato periodo di tempo a un particolare prezzo – in questo caso definito salario – puntando al più basso possibile.
I lavoratori e le aziende entrano nel mercato del lavoro con interessi dunque contrastanti. Molti lavoratori sono disposti a offrire i propri servizi quando il salario è alto, ma poche aziende sono disposte a assumerli.
Piccolo dizionario del lavoro
L’incontro di queste due forze contrapposte dà vita ai termini che ascoltiamo distrattamente al telegiornale, nelle radio o nei podcast; buttati lì tra una notizia e l’altra, numeri aggregati che perdono di senso in astratto, o che faticano ad acquisirlo perché il significato dei termini che affiancano i numeri è sempre stato dato per scontato, ma non ci siamo mai soffermati davvero a pensare cosa queste parole significhino e implichino realmente: occupazione, disoccupazione, non occupazione, forza-lavoro, lavoro nero. Di cosa parliamo? Che differenza c’è tra inoccupati e disoccupati? Perché non sono la stessa cosa?
Di seguito una carrellata di definizioni, forse un po’ noiose ma utili ad orientarci nel futuro prossimo, e che possiamo usare a cena per correggere – con una certa soddisfazione – chi si cimenta con leggerezza in discussioni politiche.
Iniziamo col dire che tutte le persone in una certa popolazione possono appartenere a tre categorie differenti: occupati, disoccupati e inattivi (persone fuori dalla forza-lavoro). Il calcolo di quante persone fanno parte di ogni categoria dipende dalla definizione di questi tre concetti, che può essere leggermente differente da Paese a Paese.
Il Bureau of Labor Statistics, a cui si conformano molte delle istituzioni nazionali (tra cui l’ISTAT) e internazionali, aiuta a fare chiarezza.
Occupati – sono considerate occupate le persone con più di 15 anni che nella settimana precedente hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuita nella settimana di riferimento. È considerato occupato anche chi ha lavorato almeno per un’ora presso la ditta di un familiare senza essere retribuito.
Disoccupati – per essere considerato disoccupato, un lavoratore deve essere o in una sospensione temporanea dal lavoro, o non avere un lavoro ma essere attivamente alla ricerca di lavoro nel periodo di quattro settimane precedente alla settimana di riferimento.
N.B. Una sottile differenza passa tra disoccupati e inoccupati: i primi sono in cerca di lavoro, ma in passato sono già stati impiegati. Gli inoccupati anche sono in cerca di un impiego, ma non hanno mai lavorato in precedenza.
Forza-Lavoro – il numero totale di persone all’interno di una data popolazione attualmente occupate, più il numero di persone disoccupate (dunque attivamente alla ricerca di un lavoro).
Inattivi – persone all’interno della popolazione che non sono occupate e che non hanno cercato lavoro nel periodo di quattro settimane precedenti alla settimana di riferimento. Gli inattivi sono quindi non-lavoratori, persone al di fuori della forza-lavoro.
Con queste quattro definizioni, abbiamo tutti gli ingredienti che ci servono per capire di cosa si parla quando si citano
- Tasso di disoccupazione (Percentuale di disoccupati sulla Forza-Lavoro)
- Tasso di occupazione (Percentuale di occupati sulla popolazione di riferimento),
- Tasso di partecipanti nella Forza-Lavoro (Percentuale di disoccupati + occupati sulla popolazione).
Facile, no?
Eppure, anche definizioni così semplici e nette aprono lo spazio a diversi dubbi. Pensiamo alla definizione di disoccupazione: per essere definito tale, devo aver cercato attivamente lavoro in uno specifico momento della mia vita. Ma può capitare che durante un periodo di recessione, in cui la probabilità di venire assunti da qualche impresa cala drasticamente, la mia fiducia e il mio ottimismo seguano lo stesso trend ed io, che nei due mesi precedenti ho sostenuto cinque colloqui di lavoro al giorno, mi sono scoraggiato a tal punto da smettere di cercare un lavoro nelle ultime quattro settimane.
Le persone che si sono arrese e hanno smesso di cercare lavoro non sono conteggiate come disoccupate, ma sono considerate fuori dalla forza-lavoro. Allo stesso tempo, alcune persone che hanno scarso interesse a lavorare al momento possono dichiararsi “attivamente alla ricerca” di un lavoro per ottenere sussidi di disoccupazione, o semplicemente perché non direbbero di no se un lavoro le venisse offerto, ma non hanno mandato curriculum o fatto qualcosa di concreto per farsi assumere. Nel primo caso, si parla di “disoccupazione nascosta”. Questa si rivela un problema spesso durante i periodi di recessione, perché si tende a sottostimare la disoccupazione nel momento in cui il fenomeno diventa più preoccupante.
I trend negli ultimi anni
Ora che abbiamo fatto un po’ di chiarezza, esponendo anche i limiti di queste misure, è interessante passare ai dati, rilevando i livelli di occupazione e disoccupazione in Italia, notando come siano cambiati nel corso del tempo e portando un confronto con gli altri Paesi.
Nel primo grafico osserviamo come il tasso di occupazione sia stato tendenzialmente crescente negli ultimi dieci anni; c’è stato un momento, coincidente col periodo del Covid-19, in cui l’occupazione è calata vistosamente, ma successivamente il trend è tornato crescente, fino a raggiungere il suo massimo nel 2024. In maniera quasi speculare, il tasso di disoccupazione ha invece seguito il trend opposto, declinando dal 2014 in poi (c’è da dire che in quell’anno la disoccupazione in Italia aveva raggiunto il suo picco). Un particolare interessante da notare è dato dal tasso di disoccupazione nel 2020: il tasso di disoccupazione cala proprio mentre il tasso di occupazione va su: com’è possibile?
Uno dei motivi è proprio quello della “disoccupazione nascosta”: il numero di inattivi è aumentato, così il numero di disoccupati cala perché a calare è anche il numero di persone che cercano un lavoro, sapendo che in una pandemia sarebbe difficile mettersi in cerca. Di contro, il tasso di occupazione non risente di questo problema, perché si considera il numero di persone che hanno un lavoro sull’intera popolazione.
Il ruolo delle istituzioni
C’è un’ultima stranezza, che spalanca la porta su un nuovo attore nel mercato del lavoro, rimasto in disparte fino ad ora. Gli USA, l’Italia e gli stati dell’UE presentano tutti lo stesso andamento crescente (decrescente) per il tasso di occupazione (disoccupazione). Tutto procede linearmente fino, ancora una volta, all’arrivo del Covid: come mai negli Stati Uniti i tassi si muovono in modo opposto rispetto all’UE? Le risposte, come al solito, sono tante e complesse, ma quasi tutte coinvolgono il terzo attore: le istituzioni.
Il contesto istituzionale è la chiave di lettura che ci permette di comprendere e spiegare il perché di certe cifre, e soprattutto perché esistono determinate differenze tra Paesi, ancor più evidenti nei periodi di crisi, i momenti in cui i governi devono intervenire – se lo ritengono opportuno – per porre rimedio all’andamento negativo dell’economia. Questo non accade sempre: alcuni economisti credono che le aziende e i lavoratori siano liberi di entrare e uscire dal mercato del lavoro; il raggruppamento di lavoratori e aziende massimizza i guadagni totali che i lavoratori e le aziende accumulano commerciando tra loro. C’è efficienza, e dunque non c’è bisogno che i governi intervengano per sistemare le cose, perché le cose si aggiusteranno da sole. Questo risultato è un esempio della famosa teoria della mano invisibile di Adam Smith. Il credere o meno in questa teoria influenza le politiche pubbliche dei governi.
Negli Stati Uniti, la politica del “laissez-faire” è predominante, e il ruolo giocato dalle istituzioni nel mercato del lavoro è ridotto rispetto a quello delle istituzioni europee. Per questo, le leggi sull’occupazione possono variare significativamente da paese a paese. Un esempio: negli Stati Uniti, molti lavori sono regolati dal principio “employment-at-will”; il concetto si lega alla capacità di un datore di lavoro di licenziare un dipendente per qualsiasi motivo (cioè, senza dover stabilire una “causa giusta” per il licenziamento), e senza preavviso, purché il motivo non sia illegale. Questa pratica è più rara in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia.
In Unione Europea, invece, la regolamentazione e la contrattazione collettiva hanno un impatto maggiore sul mercato: i costi di licenziamento – e quindi anche di assunzione – sono più alti nel Vecchio Continente. La protezione dei lavoratori è maggiore, ma per loro è anche più difficile trovare un’altra occupazione nel momento in cui sono disoccupati. Tutto questo incide sui tassi di occupazione e disoccupazione nei grafici.
Le risposte dei governi al problema del Covid sono state guidate da visioni diverse, ma sono anche frutto della cultura secolare dei diversi paesi: negli USA si è scelto di non condizionare le scelte delle imprese, permettere che queste licenziassero lavoratori in massa e pagare sussidi di disoccupazione per tutti i neo-licenziati. Molti paesi in Europa, invece, hanno “congelato” i licenziamenti, adottando politiche di cassa integrazione: i lavoratori sono formalmente impiegati nelle imprese – che non possono licenziarli – ma riducono le ore lavorate, mentre lo Stato paga circa l’80% dei loro salari (almeno in Italia). Simili schemi esistono anche negli Stati Uniti, ma si è comunque scelto di non implementarli.
Ecco in parte spiegato perché i tassi nel 2020 divergono così tanto: in Italia tanti lavoratori, pur formalmente impiegati, non lavoravano, ricevendo parte del loro stipendio dallo Stato, che alleggeriva i costi per le imprese. Il tasso di disoccupazione non è schizzato, ma non vuol dire che si lavorasse a pieno regime. Intanto, chi non aveva un lavoro sapeva che sarebbe stato inutile cercarlo in quel periodo, e questo ha contribuito ad abbassare ulteriormente i tassi di disoccupazione. Negli Stati Uniti invece le imprese hanno potuto licenziare i lavoratori, che hanno iniziato a ricevere sussidi e hanno continuato a cercare un lavoro, perché la percezione del sussidio stesso non dura in eterno.
Lavoratori, imprese, istituzioni: questi sono i tre corpi che agiscono sul sistema del lavoro. In questo capitolo abbiamo cercato di introdurli e dare qualche nozione di base, così da poterci orientare nel futuro su argomenti che ci toccano da vicino: perché la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro è aumentata costantemente nel corso del secolo scorso in molti paesi industrializzati? Qual è l’impatto dell’immigrazione sulle opportunità di lavoro e sui salari dei lavoratori nativi? I salari minimi aumentano il tasso di disoccupazione dei lavoratori poco qualificati? Qual è l’impatto delle regolamentazioni sulla sicurezza e salute sul lavoro sull’occupazione e sui guadagni?
Tutte domande a cui potremo provare a rispondere, in futuro, con la mappa che abbiamo disegnato oggi.
Illustrazione di Francesca Ferrara
Fonte grafici: https://tradingeconomics.com/italy/unemployment-rate