Mi piace pensare che tutto ciò che c’è da sapere sulla vita si raccolga dai terreni più semplici e veri, come gli occhi di Caronte.

Caronte cammina sicuro per le strade di Napoli, le conosce bene, eppure non smette di meravigliarsi. Si ferma di fronte ai dettagli più piccoli, li riscopre, come il fiore del basilico. L’altra sera, quando l’ho conosciuto, non si stancava mai di assaporare quell’odore così noto. Mentre giriamo per i vicoli si lascia affascinare da alcune, invisibili, scritte sui muri. “Sono felice” mi dice “essere qui, per queste strade, poter chiacchierare sulla vita, mi riempie di emozione”.

Ha gli occhi azzurri, di un azzurro chiaro e netto. Un modo semplice di essere, senza sfumature, così come i quadri che dipinge. Poche tonalità per raccontare un’emozione, come la felicità provata da ragazzino ogni volta che percorreva i dieci chilometri di strada che lo conducevano a casa della nonna. E’ l’arte di stupirsi di fronte alla vita, che secondo Caronte si traduce massimamente nell’espressione napoletana “Ua!”.

Benché viva in un paese dalle parti di Matera, gli capita di utilizzare con una certa disinvoltura modi di dire del nostro dialetto. “E’ che io mi sento fisiologicamente napoletano perché Napoli è una città d’amore e io mi nutro di emozioni”. Ci addentriamo in questo concetto. Mi spiega che dall’emozione dipende la sua sopravvivenza. A volte basta una canzone che passa alla radio, di quelle che conosci da sempre, di cui riscopri improvvisamente qualche parola che ti cambia la giornata. Oppure la televisione, lui che è cresciuto con la radio, ogni volta riconosce il valore di quell’esperienza visiva che resterà sempre un po’ nuova. Altre volte è un incontro, una chiacchierata ad arricchirlo profondamente. “E’ importante emozionarsi per poter riconoscere il valore delle cose. Tutto passa, ma nulla dovrebbe passare inosservato.” Come la vetrina di orologi davanti alla quale si ferma incantato. Possedere un orologio durante la sua infanzia era un lusso ed oggi non smette di omaggiare qualunque vetrina gli capiti davanti restando ad osservarla per qualche minuto.

Camminiamo, “L’ordine è per i mediocri” mi dice. Forse perché nel caos c’è più verità sulla vita, penso. Forse i più intelligenti sono quelli che si adattano al disordine, a tutto ciò che non può essere organizzato, sistemato, risolto mentre vivi. Chissà. Caronte pensa che l’intelligenza vada di pari passo con la sensibilità, che sia quella capacità relazionale, o meglio detta empatia, a contraddistinguere gli uomini dagli animali e che il popolo napoletano sia maestro in questo. “Siete un popolo che possiede una rara eleganza comportamentale”. Spiegati meglio Caronte. “Voi non siete mai indifferenti, date peso al dolore, date peso all’altro. E “tu o ssaje ca nun sì sul’, per intenderci.”

La prima volta che è stato a Napoli era il 1988, da quel momento ci ritorna ogni due, tre mesi appena ne avverte nostalgia. Si definisce non un tifoso, ma un “simpatizzante” della città. Lo sottolinea. Che poi, provare simpatia, significa proprio “sentire con”, esattamente quello che appartiene alla nostra cultura agli occhi di Caronte. Mi racconta che una volta si trovava a Mergellina con un forte dolore ai denti, dopo una decina di minuti era già circondato da un gruppo di persone che, “senza arte ne’ parte” ,  provavano ad aiutarlo, a confortarlo, a dargli qualche suggerimento. Perché  “anche solo parlare ti fa sentire meglio. Noi siamo esseri relazionali” commenta con convinzione.

Nel tempo ha spinto amici e conoscenti a conoscere Napoli. Una volta ha “prescritto”  (usa proprio questo termine) un mese intero di soggiorno in città.  L’amico in cura aveva il cuore spezzato e al ritorno aveva parlato con più persone di quante ne avesse conosciute in tutta la sua vita. L’apertura che c’è tra le persone rende Napoli capitale dell’umanità, secondo Caronte. Una città spogliata da categorie, una città che balla libera, caotica nelle sue mille forme, nelle sue sfaccettature, nelle sue contraddizioni, una città che sfugge alle definizioni, figuriamoci come si divincola dalle banalità dei luoghi comuni e dei pregiudizi che l’avvolgono quotidianamente. “Il razzismo è roba da cretini, va compatito. I pregiudizi nascono dalla cattiveria, sono misere banalità. Pino diceva anche che Napulé a sap tutt ‘o munno, ma nun sann a verità”, mi dice Caronte

Forse il razzismo non è altro che una forma d’ordine, un tentativo di ripulire la realtà dai colori, sapori, dagli odori che ci appaiono più ingombranti nel piccolo spazio in cui abbiamo sempre vissuto. Forse devi essere abituato a vivere in una città dove i confini sono labili, e se passi dal Vomero a Forcella l’appartenenza a Napoli la senti lo stesso. Un senso di appartenenza complesso e dalle mille sfaccettature.

Siamo nei pressi del quartiere Sanità quando mi indica un’icona religiosa sulla porta di un basso: “Guarda quello è San Michele! Mia nonna mi diceva sempre “Michè, tu ti devi far proteggere perché c’hai il diavolo in testa!”. Il diavolo è la sua sensibilità. Una condanna che l’ha indotto da sempre a soffrire un po’ troppo, ad emozionarsi un po’ oltre le righe. La sensibilità che l’ha rallentato. Rallentato, sì. Me lo spiega proprio lui in questi termini perché quando sei così sensibile, ti fermi sempre difronte al dolore della vita.

“Ma se io fossi indifferente ad un senza tetto, che cosa avrei capito della mia esistenza?” me lo chiede, ma sa che sono d’accordoed è spiazzante quanti  concetti apparentemente complessi riesca ad esprimere in modo semplice, lineare. Che poi, dalla sua sensibilità, deriva anche il soprannome. Una volta traghettò, uno per uno, dalla Basilicata alla Campania, un gruppo di ragazzi reduci da una sagra. Temeva potessero farsi del male in preda all’alcol. La sensibilità ti rallenta, sì. Spesso ti spinge a pensare all’altro prima che a te stesso. E Caronte, nella vita, è stato davvero lento, alle volte ha temuto di accarezzare un cane per non farlo affezionare. E fin dalla giovinezza ha sempre preso sul serio l’amore perché “Chi non sa amare, chi prende in giro gli altri e se stesso, è un cretino”. Trovo sempre più brillanti le sue definizioni dell’ intelligenza. Quasi come se la massima ambizione a cui un uomo possa aspirare in società e per se stesso sia fermarsi e comprendere, rallentare e vivere piuttosto che procedere meccanicamente alla ricerca di conferme esterne, obiettivi predefiniti e abitudini ordinate che ne silenziano la caotica natura emotiva.

Rifletto su Napoli, sul suo disordine. Città arretrata, lenta, ferma. Napoli ci fa disperare, ma chissà se poi, tutto ciò, in fondo, non ci salvi.

Così, io e Caronte continuiamo a camminare e a perderci per le strade. Prima di rimettersi sull’autobus che lo riporterà a Matera, mangia una pizza a portafoglio e mi parla, in confidenza, d’amore.  Mi dice che gli alberi d’ulivo s’impollinano da soli, un po’ per dire che il grande amore esiste, citando Cyrano di Guccini, e trova le sue strade. Gli chiedo che cosa significhi amare secondo lui. Mi risponde che amare significa dare la parte migliore di se’, avere il coraggio di accogliere tutte le fragilità della persona amata. Io raccolgo tutte queste preziose verità e me le porto con me. Penso che amare sia un’arte da imparare dai migliori maestri. Prima di salutarmi mi dice che il mondo deve ritornare ad emozionarsi e cita Rino Gaetano: “è la mia battaglia e io la vincerò”, poi segue:

“E’ che, vedi Lea, alcune persone potrebbero ritenere questa lunga chiacchierata una perdita di tempo. Ma io me ne frego. Ho capito che queste sono le persone da tenere a distanza, quelle che leggevano in me un problema. Come glielo spiego a chi mi vede arrabbiato, corrucciato che in realtà sono emozionato? Io l’ho capito a quattordici anni: la vita è una cosa seria, non me ne voglio perdere neanche un minuto”

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