Prendo il telefono e scatto istintivamente una foto. Dopo qualche mese, quando tornerò da Imma a proporle l’intervista, questa lavagnetta non la troverò più. Menomale che l’ho conservata in galleria, perché queste poche parole in rosso evidenziano brillantemente il moto che ha dato origine ad ‘O Grin.

Coraggio, passione e idealismo sono gli ingredienti necessari per sfidare le leggi del mercato e mettere in piedi una cucina vegana, nel cuore del centro storico di Napoli, tra pizzerie e rinomati ristoranti. Un progetto nato sette anni fa, da un’idea di tre amici, Luigi Salvio, Stefano Manfredo ed Imma di Meo, attualmente socia maggioritaria. Un progetto nato per portare nel mondo della ristorazione diverse istanze sociali.

Quando vivi nell’idea che sia possibile costruire un mondo più umano, quando quella stessa idea diventa ragione di vita, diviene difficile se non impossibile impiegare le proprie giornate a svolgere mansioni che non vertano in quella direzione.

La direzione verso cui si guarda, quando ci si siede ai tavoli di O’Grin, è quella di un’alimentazione sana, che non comprometta ne’ la vita animale, ne’ la salvaguardia del pianeta. Un locale dove la plastica è abolita, le porzioni sono abbondanti e prevedono solo verdure di stagione, forniture biologiche e locali, i prezzi sono bassi e l’acqua è servita gratuitamente a tutti i tavoli “perché tutti devono potersi permettere un piatto di pasta e perché l’acqua non è mia, ne’ tua, l’acqua è un bene pubblico” mi dice Imma con semplicità e convinzione.

L’attività è ormai gestita completamente da lei, conosciuta un po’ da chiunque a via Mezzocannone, in molti passano per il locale anche solo per salutarla. “Vedi? Questo mi piace, che si sia creata una comunità.” mi dice mentre si gira una sigaretta. Ha la cuffia e il grembiule come i ragazzi in cucina, Cherno e Giulia. Non è un caso e mi spiega perché: “O Grin nasce un po’ per sfidare la rigidità del mercato e del lavoro. Qui non ci sono gerarchie, non ci sono ruoli, ma funzioni e non ci sono differenze nel guadagno. Dividiamo in parti uguali tutto”

A me basterebbe questo per tornare a casa serena, con la certezza che un mondo diverso è possibile. Ma poiché non voglio raccontare favole, ma realtà che concretamente ribaltano meccanismi di guadagno che sembrano assiomi, entro nel merito della questione e approfondisco per i più miscredenti. Così le chiedo come sia possibile che un titolare guadagni alla stregua di un dipendente. Lei ride di gusto e ribatte: “Com’è possibile che un titolare guadagni di più di un dipendente? E’ questo quello che mi chiedo io. Se è il lavoro ciò che deve essere retribuito, allora chi lavora, guadagna. Quando lavoro meno di Cherno e Giulia io guadagno di meno e va bene così. E poi, noi ci abbiamo investito una piccola cifra in questa attività, ma quanto dovremmo guadagnarci su questo rischio d’impresa?”

Certo, si tratta anche di rimodulare le proprie velleità, non me lo nasconde, ma in fin dei conti lei crede che noi, in quanto esseri umani, abbiamo bisogno tutti delle stesse cose e che non sono poi così tante quelle davvero importanti. Si tratta di “riconoscersi negli altri“, usa questa espressione.

D’altro canto, il ragionamento di Imma, in termini più moderati e scientifici, viene portato avanti anche nella ricerca economica e da diverse istituzioni e aziende. Il divario tra stipendi, come quello di un dipendente ed un amministratore delegato, genera inevitabilmente disuguaglianza. Una ricerca portata avanti nel 2015 da Harvard mostra come questo fenomeno abbia raggiunto eccessi inimmaginabili (https://hbr.org/video/4536949691001/ceos-get-paid-too-much ) e istituzioni come Banca Etica hanno deciso di porvi un limite imponendo un rapporto massimo di 1:6.

Nel caso di Imma, la scelta è portata avanti all’estremo, o forse a quella che dovrebbe essere le normalità dal suo punto di vista, un rapporto 1:1, un rapporto alla pari. Scegliere di guadagnare meno poi risponde anche ad un’altra prerogativa, quella di lavorare meno. Ridimensionare l’orario lavorativo rientra nella filosofia di O’Grin, che è un po’ fuori da ogni statistica: il locale è aperto solo durante la settimana e unicamente a pranzo.

Imma mi spiega l’idea alla base di una decisione così poco competitiva: “Ci sembrava evidente, già sette anni fa, che il sistema produttivo del quale siamo un ingranaggio ci spinge a dei falsi bisogni, che a loro volta rendono necessario il raggiungimento di un’ iper-produttività. S’innesca dunque un circolo vizioso che noi volevamo provare a rompere dimostrando che è possibile fare impresa in modo diverso“.

In realtà ogni volta che c’incontriamo io e Imma ne parliamo, riscoprendoci sempre più affini, nella convinzione che gli esseri umani non debbano asservirsi ad un sistema, ma abbiano tutti un grande potenziale per poter contribuire alla costruzione di una società diversa, più umana. Lei ha scelto di avere il tempo a disposizione per poterlo fare, chiuse le porte di O’ Grin si dedica alle sue battaglie.

Mi confessa che spesso i clienti le chiedono di aprire la sera o durante il weekend. A volte sono proprio Cherno e Giulia a chiederle di lavorare di più, l’attività ormai è diventata anche loro. Tra la cucina e la sala si muovono tutti e tre insieme, sono coordinati, affiatati, legati come una famiglia.

Me lo conferma anche Giulia “Ci sosteniamo, ci aiutiamo e discutiamo esattamente come una famiglia“. Prima di approdare da ‘O Grin, lavorava in un call center. Bastano poche parole, qualche sguardo e trapela il grosso senso di frustrazione e insoddisfazione che provava. Adesso è la relazione con il cliente, l’empatia che si sviluppa in poco tempo in sala, a renderla felice.

La relazione umana è in fin dei conti alla base dell’attività. “Era quello che volevo”, confessa Imma, “ Vivo nella convinzione di dover dare peso all’altro, ai mondi che si possono ritrovare nelle persone e dai quali poter imparare. Come nel caso di Cherno e Giulia, due persone che non avrebbero avuto nulla a che fare, e che adesso si parlano con gli occhi.

Un po’ la sintesi del concetto di integrazione, quando due persone che provengono da paesi e culture così diverse si riscoprono nelle proprie similitudini e trovano altri, umani, canali di comunicazione.

Cherno è mio fratello” mi dice Giulia e forse è per questo che quando Cherno inizia a parlare della sua storia lei esce dalla cucina.

“Si dice kidnapping” sottolinea, mentre prova a raccontarmi la sua storia mettendo in fila le parole che conosce in italiano. Si riferisce alle carceri libiche, da dove è stato preso e portato di forza su un barcone per attraversare il Mediterraneo, non sapeva neanche che sarebbe arrivato in Italia.

Quando ci arriva é magro come un chiodo, oggi alcune persone ancora non lo riconoscono. Inizia a fare parte di ‘O Grin grazie ai progetti di integrazione di minori portati avanti dalla cooperativa LESS. Qui non trova semplicemente un percorso lavorativo che gli permetta un’integrazione effettiva, trova il sostegno di chi di notte l’accompagnerà in aeroporto quando sarà necessario, di chi lo aiuterà con i documenti, gli farà ascoltare Tommaso Primo, di chi gli preparerà le torte di compleanno e di chi avrà gli occhi lucidi ogni volta che si inizierà a parlare di questa storia.

Ma c’è ancora una piccola storia legata al mondo di ‘O Grin, che vorrei riportare. E’ una piccola storia intima che mi racconta Imma.

C’era una coppia, marito e moglie, clienti abituali. Lei si ammala e durante il percorso di cura, continuano ad andare a mangiare al locale. Si siedono ad un tavolo che si trova sotto delle mensole. Lui guarda sempre una piccola molletta messa lì, che ha una scritta sopra: “Non mollare mai”.

Sua moglie oggi non c’è più, ma lui continua a pranzare da ‘O Grin, fa due chiacchiere con Imma e si siede lì, a quel tavolo. È la comunità che lei desiderava, è quel piccolo angolo di mondo un po’ più suo che è riuscita a creare, per se stessa e per tutti quelli che sedendosi a quei tavoli si sentono un po’ meglio.

Io penso che combattenti ci si nasca, è una tempra che non consente rassegnazione, è una passione per la vita che non permette rese neanche di fronte agli eventi che ci rivelano la nostra impotenza, è un moto interno che si fa sentire ogni giorno, che non ci permette di dimenticare che è in nostro potere lottare per un mondo diverso.

Reportage fotografico a cura di Kristel Pisani Massamormile

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