Se crescere non significa progredire in un’unica direzione, ma essere capaci di mettersi in discussione in un processo continuo di scoperta di se stessi e di quello che ci circonda, allora la relazione con l’altro acquisisce un valore centrale.

E forse è proprio nelle zone più fragili di una persona, come di una città, quelle più indomabili e libere, che si può attingere a quella bellezza autentica, materia prima per la costruzione di uno spazio, interno ed esterno, profondamente umano.

Tra le mura del Centro Polifunzionale Ciro Colonna, dove lavora l’associazione Maestri di Strada, fondata da Cesare Moreno, tra scaffali stracolmi di libri e finestre rotte si lavora alla costruzione di una società realmente civile, di cui l’educazione, nella sua dimensione più ampia, rappresenta il fulcro.

Una dimensione ampia è quella che inquadra l’educazione come un viaggio di apprendimento e consapevolezza che l’individuo compie in relazione alla propria dimensione interna ed esterna.

Per restituire al mondo qualcosa di vero, bisogna trovare dentro se stessi qualcosa di altrettanto vero. In questo il teatro è la palestra ideale: relazionarsi all’altro da sé, non solo induce a comprenderlo ma spinge ad elaborare che anche quella che credevamo essere una forma di diversità, in realtà ci appartiene.

Un percorso estremamente delicato dove chi accompagna svolge un ruolo determinante e soltanto per chi vive quotidianamente e profondamente il significato della crescita, trasmetterlo nella sua pienezza diviene una necessità.

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Sulla base di questa spinta, Nicola Laieta, attore e maestro di strada,ha immaginato la figura dell’ “educattore” e ha fondato l’associazione Trerrote (teatro, ricerca ed educazione). Che sia un attore, un insegnante o uno psicologo, l’educattore è un individuo dotato di grande empatia, sensibilità e pensiero critico, qualcuno che sia capace di rimodularsi continuamente in funzione della crescita di qualcun altro, investendo, con energia e passione, tutte le risorse che ha a disposizione.

“Noi i ragazzi li sogniamo, cerchiamo di trovare in loro quelle scintille che se alimentate possono diventare un fuoco, quel talento che hanno e che ancora non riconoscono” afferma Giulia Menna, attrice che affianca Nicola da sette anni.

Mi spiega che il rapporto con i ragazzi è uno spazio aperto, quello necessario all’evoluzione che deriva dall’incontro, al quale però devono essere messi dei confini per non essere tempestati emotivamente e per riuscire nel ruolo di educattore.

Un ruolo che secondo lei prevede la capacità di mettersi continuamente in discussione, ogni volta che si individuano quelli che potrebbero essere degli obiettivi di crescita, ricordandosi sempre che tutti quanti siamo frutto di un percorso non lineare.

E’ infatti la relazione che si instaura con i ragazzi il fulcro dell’educazione, come spiega Giuseppe Di Somma, psicologo ed educattore, anche lui nell’associazione da sette anni: “Il primo elemento dell’educazione è il legame con l’altro, che si basa sulla stima e s’ intensifica con la fiducia che si costruisce nel tempo. Se la disciplina presuppone un’imposizione, noi di contro riteniamo che qualunque tipo di regola debba essere il prodotto di un legame, qualcosa da costruire insieme.”

E la costruzione di uno spettacolo implica una condivisione che permette di abbattere ogni difesa, uno spazio emotivo dove potersi sentire liberamente vulnerabili e scoprire le fragilità che accomunano.

Alla fine ciò che si celebra sulla scena è un percorso formativo che ha permesso ai ragazzi di attraversare timidezze, imbarazzi, di mettersi in gioco, riconoscendo i propri talenti e le proprie criticità, dando forma ad un prodotto finale costruito con il contributo unico di ognuno di loro.

Al contempo si riconosce valore alla bellezza sostanziale, quella che spiana la strada da percorrere per spostarsi dal degrado della periferia al palcoscenico di un teatro. La bellezza che induce a lavorare su stessi per costruirsi in funzione di un movimento interno che permetta di essere felici, di realizzare quello che ognuno è, che porta dentro di sé.

“Lasciare che un individuo si scopra e si centri su di sé, gli consente di relazionarsi a se stesso e agli altri in modo sano, inseguendo ciò che può procurargli un benessere profondo. La gioia si espande, così come si espandono la chiusura e la diffidenza. D’altro canto Montecchi e Capuleti non sono nemmeno consapevoli del perchè si odiano” commenta Giulia.

Una riflessione che fa riferimento allo spettacolo “La quasi storia di Romeo e Giulietta” che hanno portato in scena il 2 e il 3 marzo al Piccolo Bellini.

Una versione della tragedia shakespeariana rivisitata in chiave fortemente ironica, che attraverso un linguaggio semplice ed estremamente carnale, grazie all’uso di espressioni in napoletano, non si risparmia nel fornire una riflessione più ampia sulle forme di violenza che ancora oggi vengono esercitate in virtù della protezione di ciechi principi identitari.

Certo dev’essere difficile trasmettere ad una generazione, parte di un’epoca frammentata, che si possa morire per un sentimento così unito e assoluto come l’amore. Ci si deve credere davvero nel valore che ha la vita immateriale per convincerli.

Non s’ inganna un adolescente, questo lo sappiamo tutti. Forse il talento unico di questo mestiere così particolare è conservare qualcosa di autentico dentro di sé.

Nicola sembra averli convinti con un percorso trainante, in cui li ha coinvolti con energia e dedizione, bilanciando nello spazio teatrale il caos emotivo funzionale a far emergere il valore di ognuno di loro, con l’ordine necessario per dare forma a qualcosa che sia costruito da un gruppo. Non sembra così lontano da quello di cui abbiamo bisogno nella realtà che va oltre il palcoscenico.

Nicola è il primo a ricordare che il teatro è in fin dei conti un atto politico: “Manteniamo una comprensione reciproca, questo significa stare in società. Ogni nostra singola azione è un contributo, un’ influenza per quello che stiamo costruendo insieme.”

Basta qualche ora a contatto con una realtà unica come Trerrote per ricordarsi che esattamente come avviene a teatro, la costruzione di una dimensione comune richiede uno sforzo profondamente umano, che sappia valorizzare le imperfezioni e le emozioni che ognuno di noi porta con sé, per dare forma ad un benessere condiviso e reale.

Reportage fotografico a cura di Giuseppe Carrella

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