Alzate un dito se durante il countdown, la notte di Capodanno, avete fatto velocemente una lista mentale dei vostri obiettivi per il 2024. Con l’incoscienza di chi si prende un impegno per conto di un’altra persona vi siete lasciati andare, avete immaginato un futuro di traguardi raggiungibili. Ma adesso che gennaio è già passato e nessuno di quei desideri si è realizzato, si vede più facilmente che esiste un’altra faccia sulla medaglia del successo. Il fallimento ora fa più paura, porta a riformulare i progetti e, talvolta, non li fa nemmeno cominciare.

Questo è il binomio dietro le quinte di qualsiasi impresa nel nostro tempo:successo e fallimento.

Due concetti fra cui non esiste una zona di grigio, due risvolti i cui confini sono delineati dalla fine di uno e l’inizio di un altro. E se del successo abbiamo un’immagine chiara, veicolata dalle storie di chi riesce e dalle fantasie che ciascuno proietta sulla propria vita, il fallimento è uno degli archetipi che la nostra società nasconde, un po’ come accade con la morte. Nessuno vuole ascoltare le storie di chi fallisce, certe cose è meglio dimenticarle.

Ma è di un fallimento che voglio parlarvi.

Siamo a Detroit, alla fine degli anni 60. Non sono tempi facili e Detroit non è una città facile. Le diseguaglianze sociali tra la folla di operai e la classe agiata sono abissali e la forza della rivoluzione dei costumi sta lentamente esaurendo la sua spinta. In compenso siamo in una delle epoche d’oro della musica. È in questo clima che al Sewar avreste potuto ascoltare un giovane cantautore con le spalle rivolte al pubblico. Le sue canzoni parlano della vita vera degli operai, sbocciano come fiori da una realtà di degrado e povertà, ti colpiscono forte allo stomaco e poi ti cullano come la più dolce delle ninnenanne. Con questi presupposti non fu difficile per Sixto Rodriguez ottenere un contratto discografico e la critica lo definì presto il Dylan ispanico. Ma il suo disco di debutto “Cold Fact” non ebbe il successo sperato.

Poco male, Rodriguez aveva la fiducia dei suoi produttori, era solo questione di tempo prima che l’America riconoscesse un talento cristallino come il suo. “Coming From Reality”, il secondo album, uscì nel 1971 e… fu un disastro in termini di vendite. C’erano enormi aspettative attorno all’indiscutibile bellezza della musica di Sixto Rodriguez, ma nessuna di queste si concretizzò. Fu licenziato nel novembre del 1973, ennesimo scherzo di una sorte beffarda, come i primi versi di una delle sue canzoni più famose. Come se fosse un autentico profeta, ennesima qualità attribuita nel corso dei secoli ai grandi poeti. Ma l’America aveva chiuso per sempre i suoi occhi sulla carriera di Sixto Rodriguez, uno dei più grandi rimpianti della storia della musica.  A volte la vita di un uomo può tragicamente scivolare dalle vette del successo fino a fondersi con l’ombra del fallimento, senza alcun demerito, per un capriccio della fortuna o una trappola delle circostanze. Allora che senso hanno tutti i propositi se possono arenarsi senza che la colpa ricada su nessuno?

Porsi domande del genere è ciò che succede quando si ascolta la storia di uno che fallisce, perciò è meglio dimenticarla.

Ma se non fosse questa la fine della storia?

Immaginate di essere in Sudafrica, in un punto imprecisato fra gli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80. È difficile spiegare cosa sia stato il regime dell’Apartheid lungo l’arco del secolo scorso. Immaginate locali con ingressi separati per razze, osservate dall’alto la linea di confine che separa dei bellissimi quartieri pieni di villette a schiera in perfetto stile britannico da un ammasso indistinto di lamiere e degrado. Stare da una parte o dall’altra è solo questione di fortuna, la fortuna è solo questione di colori, il bianco o il nero della vostra pelle. Immaginate un governo che punisce col carcere o la morte qualsiasi forma di dissenso, che entra nelle case delle famiglie nere per deportare tutti, uomini, donne, vecchi e bambini nei Bantustan, terre tanto immense quanto povere, tanto lontane dalle loro case quanto sterili. E mentre il mondo intero fa silenzio, un uomo messo a tacere in carcere per quasi trent’anni fa più rumore di un’esplosione. Immaginate di essere uno dei giovani ispirato dalle parole di Nelson Mandela, immaginate di essere tutta quella generazione in piazza, bianchi e neri insieme, a rischiare la vita contro la repressione armata della polizia. E si rischiava davvero: le proteste pacifiche furono in gran parte spente col sangue di migliaia di vittime innocenti.

Sono giorni di lotta e paura, le radio nazionali trasmettono canzoni mutilate dalla censura ma, di nascosto, la musica circola libera fra i fili che tessono le vite di quella generazione. Il Rock spinge alla rivolta, fa credere che un altro mondo è possibile. Ci sono i gruppi che come scelta politica decidono di scrivere i loro testi in Afrikaans, ci sono i Beatles, i Rolling Stones. Ma nella testa e nel cuore di quei ragazzi, più in alto di tutti c’è un solo artista. Più amato dei Beatles, più politico di Bob Dylan, più famoso di Elvis.

Nessuno sa come Cold Fact di Rodriguez giunse in Sudafrica, ma è un dato di fatto che fu il disco più famoso di quell’epoca.

L’inizio degli anni ‘90 vide il trionfo della lotta contro l’Apartheid, Mandela fu scarcerato e guidò il paese verso una lenta quanto faticosa riapertura al mondo. Anche la musica ritornò libera di circolare nelle case dei sudafricani, e con essa la mondanità delle interviste agli artisti, le esibizioni dal vivo. Mancava solo un nome all’appello.

Di tutti i cantanti e di tutti i gruppi era possibile conoscere vita morte e miracoli, di Sixto Rodriguez si conosceva soltanto l’aspetto attraverso la foto sulla copertina del suo disco. La cosa più sorprendente era che nessuno nato fuori dal Sudafrica sembrava conoscerlo. Rodriguez era come sparito insieme ai soldi delle royalties di migliaia di copie vendute. Cominciarono a circolare delle storie su che fine avesse fatto lo Sugar Man, titolo di una delle canzoni più famose dell’artista. Alcuni di questi racconti seguivano gli stilemi degli artisti maledetti: in prigione per una rissa, sotto terra da suicida.

Ma la realtà, talvolta, supera di gran lunga la fantasia.

Fu così che i fan cominciarono a cercare all’interno delle canzoni di Rodriguez qualunque riferimento che potesse produrre un indizio sulla sua vita, su dove vivesse, su cosa gli fosse successo, come in una meravigliosa caccia al tesoro, con un lavoro esegetico di solito destinato ai grandi come Dante o Shakespeare. I risultati provvisori della ricerca vennero pubblicati su un sito web chiamato “Searching for Jesus”, titolo che faceva riferimento sia al nome con cui l’artista era accreditato in qualche traccia dei suoi album sia alla fama di Sixto.

Era il 1997, ed internet, seppure ai suoi albori, diede una risposta tanto inaspettata quanto sorprendente. I creatori del sito sentirono la voce di una donna che diceva di essere la figlia del cantante. E c’era di più… Sixto Rodriguez era ancora vivo, totalmente all’oscuro del suo successo.

Dopo il licenziamento aveva continuato la sua vita da operaio edile a Detroit e da sindacalista in difesa dei diritti dei lavoratori. Il suo impegno nel sociale si tradusse in impegno politico concreto a supporto delle classi meno abbienti, prima con una candidatura al consiglio comunale, poi come sindaco. Non fu mai eletto. Eppure l’ennesimo fallimento non impedì all’uomo di cercare di dare una vita migliore alla sua famiglia, lavorando e sacrificandosi per l’istruzione delle figlie e trovando addirittura il tempo per laurearsi in Filosofia.

Venne organizzato un tour nelle città più importanti del Sudafrica, dopo anni lontano dal palco. Le sei date raggiunsero il tutto esaurito nel giro di poche ore. L’artista donò la maggior parte del ricavato alla sua famiglia e destinò il resto ad iniziative per il sociale. Condusse una vita senza agi fino all’8 agosto scorso, quando la morte lo raggiunse all’età di 81 anni.

Ed è così che si abbatte un confine.

Basta una storia straordinaria e non c’è più modo di capire dove inizi il successo e dove si areni il fallimento. Diventa tutto una scala di toni dove gli estremi non esistono più e la percezione del colore dipende solo dai nostri occhi.

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