Il diritto di porre volontariamente fine alla propria esistenza si colloca, inevitabilmente, tra i temi eticamente sensibili, i quali sono, per loro intrinseca natura, sempre al centro di aspri dibattiti giuridici e politici (leggi qui il precedente articolo sulla maternità surrogata). Tali argomenti si pongono solitamente al di fuori di rigide ideologie politiche di appartenenza, in quanto includono il contemperamento di supremi valori morali, sociali e giuridici.

Il diritto di morire implica almeno due valutazioni: una sul piano etico; l’altra sul terreno giuridico. In particolare, bisogna interrogarsi, dapprima, sul principio di libera autodeterminazione personale, e se questo racchiuda in sé anche il diritto di operare la scelta di porre fine alla propria vita che, come propugnato dalla filosofia stoica, rappresenterebbe l’esaltazione massima della libertà individuale. Inoltre, è opportuno chiedersi se l’ordinamento giuridico possa predisporre il sostrato legale per rendere effettivo tale diritto, bilanciandolo con altro valore di indubbio rilievo, ossia il diritto alla vita, come diritto inviolabile della persona umana.

I diritti di nuova generazione

Il diritto di morire rientra, a pieno titolo, tra i cd. diritti di “nuova generazione”, ossia una categoria di facoltà che trova la propria origine e la propria linfa nel progresso sociale. Nessun testo legislativo, difatti, menziona espressamente tale diritto, che mai è stato preso in considerazione come pretesa giuridicamente tutelabile. Non a caso, si è soliti incasellare tale facoltà tra i diritti rivendicabili da una persona affetta da malattia terminale, che provoca sofferenze fisiche e psicologiche non tollerabili. Il diritto di morire, in casi del genere, si sostanzierebbe o nel rifiutare i trattamenti medici, evitando un accanimento terapeutico per una condizione di irreversibilità patologica del quadro clinico, ovvero nel chiedere un’assistenza al suicidio, in quanto non si è in grado, da soli, di porre fine alla propria esistenza. La materia lambisce, per certi aspetti, anche il tema della dignità umana, in quanto vivere dignitosamente comporta anche la facoltà di spegnersi in modo decoroso mantenendo, così, un senso di controllo sul proprio corpo ed evitando l’acuirsi di sofferenze per sé stessi e per i propri cari.

D’altra parte, c’è chi sostiene che vi sia un legittimo interesse dello Stato ad evitare la soppressione fisica dei cittadini, poiché sarebbe suo dovere garantire i diritti inviolabili della persona umana, tra cui rientra, a pieno titolo, il diritto alla salute, all’integrità fisica ed alla vita. Questa visione è supportata anche da parte del mondo medico, che considera il suicidio sempre e comunque come un atto contro natura e irrazionale, causato, sovente, da problematiche psichiche.

Il caso Dj Fabo

I contrasti più accesi si sono fronteggiati sul campo del diritto penale (si pensi ai casi Welby, Englaro e Cappato), ove vi sono delle norme che tutelano la vita umana. In particolare, il codice penale incrimina la condotta omicidiaria (art. 575 c.p.), ma anche fatti delittuosi che “tutela(no) (il) diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio, subiscano interferenze di ogni genere”. Ebbene, gli artt. 579 e 580 c.p. puniscono, rispettivamente, l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. Considerata l’indisponibilità del bene vita, ritenuto un valore imprescindibile di rilievo costituzionale ed internazionale, il legislatore ha inteso punire tutte quelle condotte che attentino anche indirettamente alla vita umana.

La Corte Costituzionale (sentenza n. 242/2019) è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio). In dettaglio, la vicenda riguarda il noto caso di Fabiano Antoniani (Dj Fabo) il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto nel giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente). Il soggetto non era autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione. Era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive. All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura, la sua condizione era risultata irreversibile.  Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Per dare forza alla propria scelta, aveva intrapreso, in diverse occasioni, uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare. Di seguito a ciò, aveva preso contatto, nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica. Entrato in contatto con Marco Cappato, politico e attivista italiano, quest’ultimo aveva accettato di accompagnarlo presso la struttura prescelta. In Svizzera, il personale della struttura, verificate le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità, gli consentiva, in data 27 febbraio 2017, di azionare con la bocca uno stantuffo, attraverso cui l’interessato aveva iniettato nel proprio organismo un farmaco letale. Fino all’ultimo momento Antoniani, si era mostrato determinato nel porre fine alla propria vita.

La decisione della Corte Costituzionale su Marco Cappato

Il Giudice, dinanzi al quale Cappato è imputato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), ha chiesto l’intervento della Corte Costituzionale per vagliare la legittimità della norma. La Corte ha risposto, individuando “una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa”. Si tratterebbe, in particolare,“(dei) casi in cui l’aspirante suicida si identifichi – come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»1.

In tali casi, “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.”.

I Giudici, dunque, individuano nel diritto a rifiutare accanimenti terapeutici anche la facoltà di porre fine alla propria esistenza, quando questa diventa un peso insostenibile per un soggetto gravemente malato, ove la vita diviene fonte di sofferenze non più tollerabili dal punto di vista fisico e psichico.

In dettaglio, la Corte statuisce che non può essere incriminato e punito il soggetto che materialmente agevola il proposito suicidario del malato, quando quest’ultimo si è consapevolmente e liberamente determinato alla morte.

La Consulta àncora tale diritto alla legge n. 219 del 2017 (legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento – DAT2) che riconosce, difatti, ad ogni persona capace di agire, il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale. Tuttavia, per ritenere non punibile l’agevolazione al suicidio “occorrerà, dunque, che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto (al suicidio) – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato”.

La Corte Costituzionale evidenzia, d’altronde, che la “legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.

I Giudici, consapevoli di non poter andare oltre la verifica di legittimità costituzionale, lanciano un monito al legislatore, chiedendo allo stesso di intervenire in materia per far fronte a queste nuove istanze sociali di indubbio rilievo, anche costituzionale. In dettaglio, il monito ha ad oggetto la possibilità di introdurre, per legge, la possibilità di interrompere la propria esistenza direttamente, attraverso una pratica medica, non passando necessariamente attraverso l’interruzione dei trattamenti terapeutici.

Dunque, “la conclusione è (…) che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”.

La proposta di Referendum Abrogativo

Tanto premesso, sulla base di tali presupposti, recentemente si è nuovamente pronunciata la Corte Costituzionale (sent. n. 50/2022), sulla proposta referendaria avanzata da diverse associazioni, ed attraverso la quale si chiedeva l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente). Con tale quesito, dunque, si chiedeva di rendere lecita sul territorio nazionale la condotta omicidiaria perpetrata nei confronti di un soggetto che acconsente alla propria morte, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione.

La Corte dichiara inammissibile la richiesta di referendum, in quanto “eliminando (parzialmente) la fattispecie di omicidio consentito (…), il testo risultante dall’approvazione del referendum escluderebbe implicitamente (…), la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo3. Insomma, “l’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del “sì” non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili”. Con l’abrogazione parziale della disposizione, quindi, verrebbe alla luce una normativa, che produrrebbe la “liberalizzazione” indiscriminata del fatto omicidiario commesso ai danni di un soggetto consenziente. Diverrebbero, difatti, lecite non solo le condotte volte ad agevolare la morte di una persona affetta da gravi patologie e da un quadro clinico irreversibile, ma anche quelle condotte di omicidio del consenziente caratterizzate da “situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui”.

La Corte, pertanto, evidenzia come la norma si ponga a presidio di un diritto fondamentale della persona umana e che il quesito referendario sarebbe idoneo a rendere lecite non solo le condotte immaginate dalle associazioni proponenti, ma una serie di altri comportamenti che attenterebbero alla vita umana eliminando giuridicamente un presidio minimo di tutela.


Le associazioni, pertanto, pur “perdendo” una battaglia giuridica, devono servirsi degli strumenti più opportuni per continuare a portare all’attenzione del legislatore il tema dell’assistenza al suicidio, facendosi portavoce di persone che vivono in un profondo stato di disagio e che chiedono solo una cosa: che venga rispettato il loro diritto di morire (dignitosamente).

  1. Corte Costituzionale, sent. 24 settembre 2019, n. 242, Presidente Lattanzi, estensore Modugno ↩︎
  2. L. 22 dicembre 2017, n. 219 – Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento ↩︎
  3. Corte Costituzionale, sent. 2 marzo 2022, n. 50, Presidente Amato, estensore Modugno ↩︎

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