Ciclicamente torna sullo scenario politico e giuridico la possibilità di introdurre l’obbligo di esporre il crocifisso nei luoghi pubblici e, in particolare, nelle scuole cioè negli spazi dedicati all’istruzione.
La ragione sta probabilmente nel fatto che le uniche disposizioni normative precise sul tema riguardano gli arredi delle scuole elementari e medie; provvedimenti amministrativi e nulla più, invece, per le scuole materne, gli istituti superiori e le Università. C’è chi sostiene, non a torto, che a rendere più animato il dibattito sia proprio il fatto che esiste una regolamentazione specifica del tema solo per le aule scolastiche, nulla per gli altri uffici pubblici.
Questa diversa impostazione normativa ha, inevitabilmente, comportato confusione sulla questione. Non si sottrae alla vivacità della disputa anche la giurisprudenza che, in diverse occasioni, è dovuta intervenire proprio per dirimere i contrasti sociali più accesi e per cercare di dispensare dei principi atti ad orientare le amministrazioni dello Stato in assenza di indicazioni confortanti da parte del Legislatore.
Considerate tali premesse e tenuto conto della delicatezza della materia, il contrasto sul tema sembra inevitabile. Da una parte c’è chi sostiene, in modo innegabile, che vi è generalmente “un apprezzamento positivo per i valori cristiani” e ciò è “coerente con la cultura italiana, che ha nel pensiero cristiano una componente fondamentale” in quanto “sotto il profilo storico, il pensiero cristiano ha influito in modo significativo sulla cultura del nostro paese”. Dall’altra parte c’è chi si oppone fermamente all’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, o in altri luoghi pubblici, in quanto tale imposizione andrebbe a violare il principio di laicità dello Stato cioè quell’assunto secondo cui il potere pubblico dovrebbe tenersi fuori dalle determinazioni personali dei cittadini in ordine alle proprie convinzioni religiose, garantendo così la libera manifestazione del pensiero.
Ciò che preme evidenziare è che le uniche normative, ancora in vigore, sono piuttosto risalenti. La prima è contenuta nel Regio Decreto n. 965 del 1924 (per i Regi istituti di istruzione media) il cui art. 118 statuisce espressamente che “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, (ha) l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”. La seconda è contenuta nel Regio Decreto n. 1927 del 1928 (sui servizi dell’istruzione elementare) che elenca tra gli arredi necessari in aula: 1. Il Crocifisso; 2. Il ritratto di S.M. il Re. Tutto ciò perché la figura del Sovrano era considerata sacra ed inviolabile e la sua posizione apicale era “giustificata” dalla Grazia di Dio, tanto è vero che in essa si rinveniva l’origine del suo status, nonostante si trattasse di una monarchia liberale e parlamentare, non più assoluta. Pertanto, questa doppia rappresentazione e l’equiparazione figurativa delle due immagini cristallizzava una visione consolidata della gerarchia sociale. A conferma di tale impostazione politica e giuridica vi era, infatti, l’art. 1 dello Statuto Albertino che proclamava la sola religione cattolica come religione di Stato.
Ciò posto, con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948 e la fine della Monarchia, si è stabilito che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani ed i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi (art. 7 Cost.). In particolare, il fenomeno religioso viene considerato elemento sostanzialmente distinto rispetto allo Stato. La norma, d’altronde, riconosce di fatto una posizione di privilegio della religione cattolica che gode, infatti, di una peculiare attenzione dato che i Patti Lateranensi, Trattati che assumono un ruolo chiave nel panorama costituzionale, regolano i rapporti tra due entità di indiscutibile rilievo. Infatti, alcuni autori, sulla base di tale disposizione, hanno identificato lo Stato italiano come “né laico né confessionale”. La Carta costituzionale, però, aggiunge che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8 Cost.) e ciò implica un principio supremo ed inderogabile degli ordinamenti democratici a tutela del rispetto e dell’imparzialità del potere pubblico verso tutte le confessioni religiose. Tutti hanno, infatti, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume (art. 19 Cost.). Tutto ciò, insomma, per dire che la libertà religiosa costituisce un diritto inviolabile dell’uomo, come sancito anche dalle Carte Internazionali, garantito sia nei confronti dei pubblici poteri che dei privati. È dovere dello Stato, quindi, garantire la libera manifestazione del pensiero in tutte le sue forme (art. 21 Cost.).
Tanto premesso, ciò che si evince da tale ricostruzione normativa è che i principi costituzionali, anche se chiaramente volti a garantire la piena libertà religiosa, assumono, per certi versi, anche un sapore “di compromesso” al fine di garantire una relazione stabile tra due entità: Città del Vaticano e la Repubblica Italiana.
Ovviamente, una disciplina particolarmente datata ed una generale vivacità del dibattito pubblico, dovuta anche alla delicatezza del tema, hanno portato ad una serie di dispute sociali a cui la giurisprudenza ha provato a porre rimedio.
Al di là delle normative, può essere utile evidenziare due pareri del Consiglio di Stato. In particolare, nel 1988 il Supremo Organo di giustizia amministrativa ha considerato che i Regi Decreti degli anni ’20 sono “tuttora legittimamente operanti” ed “a parte il significato per i credenti, (il Crocifisso) rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa”. I giudici hanno espressamente aggiunto che “occorre (…) anche considerare che la Costituzione repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come quello del crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico” e, pertanto, “la presenza dell’immagine del crocifisso nelle aule scolastiche (non puo’) costituire motivo di costrizione della libertà individuale”.
Il Consiglio di Stato, rispondendo a un ricorso presentato dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) nel 2006, confermando il proprio orientamento, pur dichiarando che effettivamente le normative risalivano al periodo fascista, ha ribadito che lo Stato italiano è laico, ma ha osservato che tale “principio di laicità non risulta compromesso dall’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche”. Il crocifisso va considerato “non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato”. Insomma, i giudici evidenziano che la fede cristiano-cattolica esprime dei valori pienamente accolti nella società e che, al di là delle convinzioni confessorie, trovano un riferimento anche nella Carta Costituzionale. La soluzione recepita va ad esprimere, dunque, un “favor” per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in quanto, trattandosi di spazi dedicati all’istruzione, è da quel contesto che i valori fondamentali del popolo italiano devono trovare divulgazione.
Nonostante la giurisprudenza amministrativa si sia pronunciata chiaramente sulla questione non sono mancati successivi pareri, atti amministrativi e casi giudiziari che hanno portato alla ribalta mediatica il tema ed hanno accolto soluzioni non sempre coerenti.
Ciò che interessa segnalare è uno degli ultimi approdi giurisprudenziali, condensato in una sentenza della Cassazione del settembre 2021. In fatto, la vicenda ha come protagonista un professore di un istituto professionale che, sistematicamente, prima dell’inizio delle sue ore di lezione rimuoveva il crocifisso dalla parete dell’aula per riporlo al proprio posto solo al termine delle stesse. Questo atteggiamento aveva provocato la reazione degli studenti che, riuniti in assemblea, avevano chiesto l’affissione stabile del simbolo, decisione recepita, infatti, in una circolare del dirigente scolastico. Il professore riceveva, pertanto, un provvedimento disciplinare per aver disatteso gli ordini impartiti dal superiore gerarchico. Al di là della vicenda storica e di alcune questioni giuridiche che hanno interessato il tema, ciò che preme qui evidenziare è la soluzione di compromesso accolta dalla sentenza in commento. Lo scontro, come si può comprendere, è tra principi e valori fondamentali del sistema e cioè la libertà religiosa, la laicità dello Stato, il pluralismo, il divieto di discriminazioni, la libertà di insegnamento nella scuola pubblica aperta a tutti.
I giudici hanno stabilito, infatti, che “occorre evitare che ci sia un tutto per una delle (due) libertà e un nulla per l’altra, che un diritto si trasformi in tiranno nei confronti dell’altro, che l’esito finale si identifichi, in una violazione del principio pluralista, con una soltanto delle diverse soluzioni in campo, che la tensione tra diritti di pari dignità si trasformi in scontro tra valori”. Insomma, “la strada da percorrere è quella dell’accomodamento ragionevole, intesa come ricerca, insieme, di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni nella misura concretamente possibile, in cui tutti concedono qualcosa facendo, ciascuno, un passo in direzione dell’altro”. La Cassazione, conscia del precario equilibrio tra i valori da porre in bilanciamento, indica “l’accomodamento ragionevole (come) luogo del confronto” non essendoci “spazio per fondamentalismi, per dogmatismi o per posizioni pretensive ed intransigenti”.
Per concludere, nel caso di specie, la Cassazione evidenzia che il docente dissenziente non ha un potere di veto o di interdizione assoluta rispetto all’affissione del crocifisso, ma deve essere ricercata, da parte della comunità scolastica, complessivamente considerata, una soluzione che tenga conto del suo punto di vista e che rispetti la sua libertà di insegnamento, di manifestazione del proprio pensiero religioso. Infatti, i giudici hanno evidenziato che, considerate tali premesse, l’ordine di servizio del dirigente scolastico risulta illegittimo in quanto non ha cercato, e neppure promosso, un “ragionevole accomodamento” tra tutti i protagonisti in quanto non ha mai sollecitato gli stessi ad una valutazione che tenesse conto di tutte le possibilità praticabili sulle modalità di esposizione.
La pronuncia, oltre a distillare un ponderato principio, pare suggerire anche una strada a tutte le istituzioni: quando si discorre di diritti fondamentali, attinenti alla sfera più intima dei cittadini, bisogna evitare imposizioni che potrebbero compromettere un valore a danno di un altro ma è necessario consentire alla comunità di sentirsi protagonista delle proprie scelte. Quindi, la società, attraverso la pura espressione del principio democratico, può decidere di esporre il crocifisso con una valutazione che sia frutto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità cercando sempre di contemperare gli opposti interessi e senza mai annichilire completamente la posizione degli altri individui (in minoranza). “Privilegiare un approccio dialogante significa non appiattarsi su una logica (esclusivamente) maggioritaria, dove i molti scelgono ed i pochi soccombono”.