L’opportunità di accedere ad una dimensione lavorativa non è solo un contributo al PIL nazionale, è il presupposto per una concreta integrazione sociale, riduce la probabilità che un soggetto si avvicini ad attività illegali e organizzazioni criminali e che si ritrovi in una condizione di instabilità psichica.
Laddove non si interviene dall’alto, esiste ancora la libertà di farlo dal basso, con tutte le difficoltà del caso, ma con la consapevolezza che il raggio della propria azione avrà un impatto molto più ampio di una semplice assunzione. Laddove “semplice” è un eufemismo.
Marco Cecere, dotato di una certa tempra e determinazione, l’ha sempre avuto come obiettivo: offrire delle opportunità lavorative concrete ai migranti che arrivavano sul nostro territorio. E ha intrapreso un percorso, improvvisato, partito da un tavolo con sopra lamiere di metallo e qualche attrezzo, un’immagine con cui si sposa bene il nome del progetto Avventura di Latta.
L’impresa inizia con l’ Assocazione Samb&Diop, voluta da Alex Zanotelli e guidata da Gennaro Sanniola e Carmela Tagliamonte, che aveva tra i tanti scopi, quello di insegnare italiano ai migranti. Nel 2011, anno segnato all’epoca da un boom di arrivi sulle coste italiane, si decide di dare spazio ad altre iniziative che ampliassero le opportunità di inclusione sociale: laboratori di sartoria, falegnameria e lavorazione di metallo.
L’ultimo, gestito da Marco raccoglieva 18 ragazzi, provenienti da paesi completamente diversi, Sudan, Mali, Burkina Faso, Gambia. Molti di loro non parlavano neanche la stessa lingua.
“Non era semplice, però avevamo quest’idea utopica del poter costruire qualcosa senza sfruttare il fatto che loro fossero destinatari di fondi, senza sfruttare in pratica le loro debolezze” racconta Marco.
Poi prosegue: “Nel 2011 il gruppo era composto da rifugiati che scappavano dalla guerra. C’erano persone anche tra i 40 e i 50 anni, avevamo a che fare con una fragilità cosi elevata che prendere in giro ulteriormente queste persone prospettando possibilità di lavoro che poi non sarebbero state concrete era inconcepibile.”
Gli chiedo di entrare nel merito di questa affermazione. Mi spiega che la categoria a cui è destinato il fondo di questa tipologia di progetti, ad esempio i migranti, può diventare uno strumento per ottenere il finanziamento. In pratica il fine ultimo è ottenere i soldi, non generare un’opportunità di occupazione. Il risultato è che un gruppo di persone ricevono passivamente una formazione, che difficilmente genererà un impatto positivo sulle vite di chi partecipa e oltre. Una dinamica che in gergo economico potremmo definire inefficiente perché le risorse a disposizione non sono ottimizzate.
L’obiettivo del laboratorio Avventura di Latta, in posizione antitetica rispetto ad alcune tendenze del terzo settore, è sempre stato trasmettere, trasferire, qualcosa che andasse oltre le tecniche di lavorazione, che fosse passione, conoscenza, ma anche uno strumento per comprendere il proprio valore.
E il valore è emerso lentamente, nel tempo. Hanno cominciato con i mercatini e con il ricavato della vendita si generava la retribuzione per i ragazzi. Una cifra che dovendo essere divisa per diciotto persone era minima, ma nel tempo in molti hanno cambiato lavoro o si sono trasferiti altrove.
Poi nel 2014 è stato indetto che Compasso D’oro ADI, il premio mondiale di design comprendesse tra i criteri di selezione la responsabilità sociale dei prodotti. Marco ha intuito che si stesse invertendo qualche tendenza sul mercato, che stessero iniziando a riscuotere interesse tematiche come la sostenibilità economica, la decrescita e l’inclusione sociale.
Le richieste al laboratorio sono aumentate gradualmente nel tempo e sono nate collaborazioni con altri enti tra cui Legambiente, Dedalus, Gay Odin, Maestri di Strada, Officinegomitoli, l’Accademia della moda di Napoli, La Locanda del Testardo.
L’attività procede da più di dieci anni e oggi i lavoratori dipendenti di Avventura di Latta sono tre, due assunti part-time e uno a tempo indeterminato.
Nel laboratorio oltre al rumore dell’archetto da traforo, c’è una musica dai tempi veloci e allegri. Abdallah Abderrahman, 38 anni, del Sud Sudan, mi spiega che è la musica del suo paese. Quello spazio insomma è ormai casa loro.
Lo stesso vale per Sadja Fati, 29 anni, del Guinea Bissau, taciturno e padrone del suo spazio.
Provo a mettermi al lavoro anche io e con pessimi risultati. Una scena che ai loro occhi sarà risultata comica, probabilmente, ma che forse restituisce un’ulteriore consapevolezza di quanto sia difficile acquisire tutte le competenze che hanno consolidato nel tempo.
“I ragazzi qui sono sereni, sui loro profili social c’è scritto che sono artisti, magari questa prospettiva non la immaginavano nemmeno quando sono arrivati. Oggi hanno consapevolezza di cosa siano l’arte la bellezza e di come possano generare un cambiamento. ” racconta Marco durante le interviste.
Gli oggetti prodotti sono ispirati alla natura, ma attraverso linee astratte, poco schematizzate. Alcuni nel tempo, su richiesta per commissione, hanno raccontato anche a Napoli, rappresentando i riferimenti culturali della città.
Il materiali lavorati sono rame, ottone, acciaio e ferro, perché la latta è stata ritirata dal mercato dopo che il piombo è stato dichiarato tossico.
Nel tempo la produzione si è evoluta, andando oltre le righe del prodotto artigianale e affermando una visione artistica. Raffinando le competenze tecniche anche il difetto racchiuso in ogni singolo oggetto, che lo caratterizza e ne racconta la storia, in realtà è controllato e voluto.
Il design dei gioielli nella sua dimensione narrativa s’ispira a Riccardo Dalisi, che è stato un rinomato architetto e designer napoletano e che ha sostenuto fin dall’inizio il laboratorio.
“Da noi si acquista un percorso, la cui testimonianza è il gioiello finale. Dietro i nostri prodotti c’è prima di tutto il confronto, la contaminazione delle culture, poi l’apprendimento della tecnica” spiega Marco.
Paradossale che un grosso ostacolo alla crescita e all’affermazione del prodotto perseguendo standard artistici più raffinati ed elevati sia proprio la dimensione sociale del progetto. Come spesso capita a chi lavora nel terzo settore, la dimensione professionale è di default convertita in una dimensione missionaria.
Lo scopo di inclusione sociale offusca come una patina quello che è il valore dei prodotti in sé e c’è ancora chi li acquista soddisfatto all’idea di star facendo beneficenza.
Oltre alla tendenza a vederle come missioni, sembra essere assente un supporto istituzionale concreto che incoraggi questo tipo di attività da quello che racconta Marco: “Evolvere verso una nuova forma giuridica che ci permetta di crescere significa essere schiacciati dalla burocrazia e dalla tassazione. Se da una parte siamo visti come missionari, dall’altra non si comprende che siamo un supporto concreto alla comunità intervenendo su una fragilità e siamo abbandonati a noi stessi. C’è qualcosa che non va.”
Qualcosa che non va riguarda anche un episodio che l’ha coinvolto qualche anno fa quando assieme ad un gruppo di ragazzi, aveva cominciato a ripulire da siringhe e rifiuti delle scale in una zona del centro storico rigenerandola con piante e aiuole e ha rischiato una multa di 14.000 euro.
Qualcosa che va, invece, mi sembra risieda nelle sue idee imprenditoriali. Marco con grossi sforzi individuali, ha sempre puntato alla crescita. E questa prospettiva non riguarda solo i prodotti o l’attrezzatura in cui ha continuamente investito senza risparmio, ma anche il percorso di Abdallah, Sadja e Fadel che ha sempre spronato verso dimensioni di miglioramento e responsabilizzazione, cercando di trasferire ambizione e desiderio di evoluzione.
Quella che da dieci anni si prova a portare avanti è un’attività che punti alla qualità in ogni aspetto della produzione, che sia sinonimo di sviluppo e libertà allo stesso tempo.
Ma procedere con successo in questo tipo di impresa, laddove manca un supporto istituzionale, richiede necessariamente un feedback costante e crescente dal mercato. Richiede in altre parole una domanda consapevole, forte e ricca di riferimenti culturali. Una domanda che sappia riconoscere dove risiede il valore.
Nell’attesa di ulteriori sviluppi attualmente il laboratorio di Avventura di Latta si trova presso l’ex Lanificio Sava, in via Enrico de Nicola 46, a Napoli.