Sono mura dalle fondamenta ruvide e morbide, si sciolgono proprio mentre tu le osservi, si fondono tra loro, ogni colore diventa l’altro ma rimane fedele a sé stesso. I dipinti di Emanuela sono così: capaci di abbattere la distanza tra sé e l’altro per poi ritrovarsi. In ognuno di loro è presente uno sguardo: quello protettivo di una madre, coraggioso di una sorella, fragile di una figlia, umano di una donna. Almeno, io ho scorto quello delle mie.
Mi dice che da piccola disegnava, ma non aveva il dono. “Forse ero portata, mi piacevano i colori”. La voce di Emanuela è vitale, come i suoi lavori. Regge la tazzina di caffè e il pennello con uguale dignità, la stessa che rivendica quando afferma con determinazione di essere una pittrice. Dopotutto, quanto conosciamo noi stessi trapela anche nel modo in cui raccontiamo. Mi rivela che quelli del liceo furono anni travagliati.
“In un giorno particolarmente difficile, incontrai un professore di storia dell’arte. Gli dissi della mia passione per il disegno e che avevo perso l’inclinazione. Lui mi rispose di prendere l’inchiostro e disegnare qualcosa su carta già usata che quella completamente bianca poteva spaventare.”
All’ultimo anno disegna un manichino e comincia a guardarsi allo specchio, da vita ad un autoritratto. E poi un altro ancora, e ancora. Col tempo, il richiamo è stato così forte, che Emanuela (ri)prende vita; e dalla sua costola nasce Cassandra.
Emanuela Auricchio, (Napoli, 1998) studia alla bottega di Francesca Strino, si laurea all’Accademia delle belle arti di Napoli; un periodo a Bologna per studiare storia dell’arte e il ritorno in città per dedicarsi alla magistrale di Didattica dell’arte e mediazione del patrimonio artistico, hanno acuito la sua passione a tal punto da volerne scavare i retroscena. I suoi dipinti sono affidati alla pagina Instagram @emanuela.auricchio e i lavori di street art @cassandra.parla.
L’incontro è il sale della sua arte, la pittura diventa espressione della dimensione fertile che avverte nello scambio con l’altro.
Artemisia è forse il suo progetto più riconosciuto, e a ragione: nell’estate 2021, si trascina tra Spaccanapoli e San Domenico con tela cavalletto e tavolozza, per tre, quattro volte a settimana. Si piazza in mezzo la strada, un foglio bianco posto di fianco al dipinto riporta una dedica ed un invito crudo e onesto a firmare in nome della violenza subita, la tela blu di Artemisia. Il blu si costella di chi è sopravvissuta, e di chi no.
“Una volta è arrivato un papà, mi chiese se poteva firmare. Gli risposi di essere contenta che l’azione fosse condivisa da tutt*, ma ci tenevo che la firma fosse fatta dalle donne per le donne. Mi rispose di volerla mettere a nome della figlia ammazzata. Fu devastante.”
Sembra che la sua arte abbia l’intento di una battaglia, anche ben definita. Ma la lotta non è una presa di posizione, piuttosto la conseguenza naturale di un incontro in cui è stata esercitata empatia.
“Non dipingo per lottare contro la violenza sulle donne, è diverso. La questione è che la maggior parte delle donne che incontro, hanno subito forme di violenza. Ma è semplicemente un istinto a muovermi verso di loro”
La spinge un richiamo innato nei confronti dell’altro, l’esigenza di raccontarne la storia e le sue sfaccettature. Mi spiega che la sua arte si basa su quello che lei ritiene essere una spinta primordiale, descrivendomela come un bisogno di rivedersi nella storia dell’altro, storia passata o contemporanea, come fossimo tutti figli della stessa madre.
La sua è una ricerca profondamente radicata in questa città, che pare stritoli la sua arte in un abbraccio caloroso. E la curiosità dimostrata verso le sue opere, rende Emanuela libera non solo di entrare in contatto con le persone, ma di renderle parte integrante del lavoro.
Napoli ci obbliga costantemente al confronto, e più spesso di quanto si pensi, l’incontro con l’altro è uno scambio vivo e reciproco, dove si è pronti a misurarsi con i propri limiti. Diversamente accade altrove.
“In un’altra città verso il centro Italia, mi chiesero il permesso per poter dipingere, se fossi lì per vendere. Alla mia risposta negativa risposero “E allora perché sei qua?”; sono molto disillusi, non capiscono l’azione gratuita.”
Le chiedo cosa voglia fare da grande. Ci pensa, mi sorride. Mi dice che tempo fa avrebbe detto solo la pittrice. Ora vuole crescere, lavorare con l’arte come tramite. Saper creare, studiare, capire la nostra condizione sociale, imparare a narrarla. Dare vita a mostre e laboratori che non siano solo teorici ma in grado di offrire un’esperienza umana. Mancano troppe voci all’appello secondo Emanuela: la cultura, lo studio, l’inclusività mentale e fisica.
E qui la battaglia assume forme più delineate. L’arte non è un privilegio che parla solo ai suoi amanti. Come può la più antica forma di comunicazione essere elitaria e costretta ad essere apprezzata solo in gallerie?
Emanuela non smette di combattere per chi si ritrova nelle sue parole, nei suoi dipinti; ne percepisco la forte necessità in un lavoro in particolare, divenuto poi il volto di Cassandra.
Heroides è un trittico di volti imponenti, ritratti di donne reali che Emanuela ha usato come modelli per il lavoro di tesi in Storia dell’Arte Moderna: la ricerca verteva su Venere e Adone raccontata attraverso le Heroides di Ovidio
“I ritratti delle tre non rappresentano una singola epistola, li ho dipinti in base ai sentimenti delle donne che trapelavano nei vari frammenti. ”
Le tre diventano ritratti di eroine contemporanee, unendo il passato al presente, cifra stilistica che l’aiuta a rintracciare quelle similitudini che ci portano a rincontrarci in un solo volto.
Osservo dal vivo Heroides Uno alla mostra collettiva di Spaziotra dov’è esposto: si erge su uno sfondo di un rosso quasi bruciato, la veste color oro foglia è adornata di vero tulle. Guarda dall’alto col mento all’insù, pare stia per fare un rimprovero, invece sembra ricordar(mi) quant’è importante essere gentile.
Emanuela mesi fa ha deciso di fare un esperimento: ha dipinto su un cartellone bianco incollato ad un muro di Port’Alba il volto di Heroides Uno, un pennarello attaccato e un’indicazione in basso: “questa volta parlerete voi“. La reazione è stata curiosa e positiva per un mesetto; tra le frasi che ho scorto c’è Vulesse nu poc e felicità, cerchiamola assieme.
Poi un giorno qualcuno che scrive Viva il Duce! e strappa quasi tutta l’opera. Credere ogni giorno nel bello è un gran dispendio di energie, ma quelle non le mancano:
“Se ci sono le giuste sollecitazioni, le persone sono spinte a dare. Non è vero che siamo poveri, noi sappiamo avvicinare l’altro. Anche la persona più ribelle, può comprendere un proprio errore e può ripensarci, dicendo a se stessa: no, non lo rovino.”
Andare avanti mettendosi in discussione, aprendosi all’altro e scavando costantemente dentro se stessi e il proprio vissuto è stancante, a volte sarebbe bello prendersi una pausa, penso. Ma questo è quello che accade quando si lavora con le emozioni, proprie e degli altri.
“Credo nello scambio umano, al di là dell’arte. Oggi è difficile avere fiducia nell’incontro con l’altro e nella bellezza che ne deriva. Lo slancio istintivo poi s’è intrecciato col mio mezzo, e perché tenermelo per me, se posso metterlo a disposizione se può aiutarle? So quanto impegno, spasmo vitale ci metto, anche se va male, sono serena nel pensare che chi si sente nel posto giusto, prima o poi, tutto lo sforzo avrà un senso”.
Emanuela e Cassandra hanno parlato.