Il mio primo amore fu un ragazzo brasiliano, si chiamava Luis Nazario de Lima, conosciuto come Ronaldo, il Fenomeno. La mia prima maglia da calcio fu dunque nerazzurra, col numero 9. La custodisco ancora gelosamente, me la regalò mio padre, tifosissimo del Napoli. Quella casacca così diversa dai colori del suo cuore, fu il simbolo dell’amore nei miei confronti.

Ricordo il giorno in cui tutto cambiò. Fu durante una partita del campionato di Serie C1, nella stagione 2004\2005. Il Napoli, appena rinato dopo il fallimento, affrontava l’Avellino nella finale dei play-off per accedere alla Serie B. Fu una sconfitta clamorosa, gli azzurri sarebbero rimasti ancora per un anno nell’inferno della terza divisione, lontanissimi dal calcio che conta. Vidi la sofferenza della rassegnazione negli occhi di mio padre e allora capii.

Il calcio si vive nelle viscere, come qualcosa di ancestrale, ci fa piangere, gioire, soffrire come dei cani, ma di cui non possiamo farne a meno, come succede con l’amore. Quel giorno, nella sconfitta più scottante, capii di essere tifoso del Napoli. C’è qualcosa che ci lega alla nostra squadra e va oltre le vittorie o le sconfitte, è come una cittadinanza, un’eredità che discende dal padre al figlio, tiene insieme la gente e le famiglie. Tutto questo forse a Napoli è ancora più forte.

Veniamo ad oggi

Oggi non potrei essere più felice per questa vittoria, attesa per tutta la vita. Sono tornato a casa di notte, dopo aver festeggiato ad oltranza la vittoria dello Scudetto, ho cantato, bevuto, sono esploso di gioia insieme a tantissime persone in piazza e, credetemi, ero on fire. Ma quando ho puntato la sveglia di lì a tre ore per andare a lavoro ho cominciato a riflettere e mi sono chiesto: e adesso? Che cosa porterà con sè questa vittoria? Ci sentiremo ancora così uniti? E io, d’un tratto, mi sono sentito solo.

Con un enorme senso di vuoto allo stomaco, ho cercato risposte nei dati. Innegabile che lo Scudetto porti soldi ai partner commerciali legati al club partenopeo, i quali hanno già visto le loro entrate aumentare di un quarto (se non del quasi 50%) rispetto all’anno scorso. Certamente è un bene, dato che stiamo parlando in molti casi di aziende che nascono sul territorio Campano che per meccanismi di fidelizzazione  vengono scelte dai tifosi-consumatori rispetto ai competitor. 

Lo scudetto sta richiamando anche i turisti. Napoli si è riempita di visitatori che, fra le altre cose, fanno tappa nei luoghi segnati da pittoresche manifestazioni di tifo calcistico, dalle edicole votive ai murales di Maradona, in un grand tour azzurro. Milioni di visite e milioni di euro entrati nelle casse delle attività sparse per la città. Eppure, Napoli si sta trasformando, tra baretti che vendono spritz a buon mercato, turisti in cerca dell’ennesima pizza fritta in ogni angolo, case per studenti adibite a B&B e via discorrendo. È questo il turismo che Napoli merita? È sempre difficile fare un trade off quando le tasche si gonfiano e molte zone sembrano finalmente riqualificate. 

E ancora un altro business: il mercato del falso. La Camorra ha fatto grossi investimenti da mesi, riconvertendo le fabbriche specializzate nella contraffazione degli articoli dei brand dell’alta moda in centri di produzione di magliette, sciarpe e bandiere coi colori azzurri accompagnati dal tricolore. Soldi facili che la criminalità organizzata sta già incassando. Un bene o un male? La risposta non è scontata se consideriamo che alla base della piramide c’è una realtà che sopravvive grazie al lavoro a nero, dall’operaio dell’opificio abusivo al venditore della bancarella in centro che, cogliendo l’occasione della festa Scudetto, trova una fonte di sussistenza.

Ma non solo di business vive l’uomo

E nemmeno di calcio. La festa è stata un rito collettivo, una di quelle notti fatidiche che valgono una vita, consumando in un unico momento di liberazione, negli istanti che seguono il triplice fischio di fine partita, 33 anni di frustrazioni sportive.

Ma io ho ancora una domanda. Perché per un pallone si ritrovano tutte le energie che l’economia, la politica e l’impegno sociale hanno perso il potere di alimentare? 

Cinicamente direi che tifare non costa nulla, ci si abbandona alle emozioni della gara, offre ottimi argomenti di conversazione leggera che talvolta scatenano persino il brivido della guerra. Uno a zero per il calcio, se la partita la gioca una politica vuota, che dovrebbe richiedere persino impegno, conoscenze e costanza, senza il conforto di un’ideologia che come una maglia da calcio riunisce la massa sotto un solo colore.

Lo sport non cambia il mondo, ma racconta delle storie

Mentre ci ragionavo, mi è apparsa un’immagine. Una foto che ha fatto il giro del mondo e risale al 16 ottobre 1968: due ragazzi neri su un podio, con al collo l’oro e il bronzo delle medaglie olimpiche dei duecento metri, abbassano la testa e tendono il pugno chiuso, teso verso il cielo di Città del Messico mentre allo stadio risuona l’inno americano. Sei mesi prima di quel giorno era stato assassinato Martin Luther King, e la lotta degli afroamericani sembrava essersi arrestata contro il muro della violenza. Quel giorno invece, Tommie Smith e John Carlos dimostrarono al mondo intero che nulla poteva fermare la marcia verso i diritti civili, e lo fecero attraverso un’epica vittoria sportiva, ispirando la gente a continuare a battersi per i diritti umani negli Stati Uniti e non solo. 

Altre immagini corrono nella mia mente. Gino Bartali, campione antifascista, la sua bicicletta che nasconde i documenti falsi che salvarono la vita a centinaia di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Abebe Bikila che taglia il traguardo della maratona delle Olimpiadi a piedi nudi, in una Roma stupenda e attonita, con gli occhi puntati sul trionfo dell’Africa contro il giogo del colonialismo.  Socrates e la sua Democrazia Corinthiana, il famoso calcio che diede inizio alla guerra nell’ex-Jugoslavia, Maradona che vola e tocca il pallone con la mano, restituendo all’Inghilterra sul campo la frustrazione di un popolo intero dopo la guerra della Folkland. 

Lo sport non cambia il mondo, ma racconta delle storie. E sono le storie a cambiare il mondo. 

Questo Napoli ne avrebbe tante di storie da raccontare. Quella di Victor, ragazzo cresciuto nella periferia di Lagos, per esempio, che un giorno in una discarica trova delle scarpette da calcio che gli cambieranno la vita. Ma anche quella di Kvicha, genio e talento cristallino, arrivato a Napoli nell’indifferenza ma che con pochissimi tocchi del pallone è riuscito da subito a far innamorare tutti. Ci sono i sacrifici di Giovanni, dal suo esordio in Serie D fino al tetto d’Europa. Per non parlare di Alex, dato per finito dopo una stagione deludente, ma che con le sue parate è diventato una certezza. 

Le scelte cambiano il mondo

Dietro questa vittoria c’è una scelta, quella di ricominciare da capo non con investimenti faraonici ma andando a puntare su giocatori giovani ed estremamente talentuosi, investendo cifre irrisorie rispetto alle campagne acquisti dei top club europei a cui oggi non resta che assistere inermi al trionfo storico di un Napoli commovente sul campo con la sua filosofia di gioco. Questo modello di rinascita, economica prima che sportiva, non potrebbe ispirarci ad orientare le nostre scelte verso un tipo di economia vincente in termini di sostenibilità sociale?

Il Napoli ha vinto, ma la maggior parte di noi non ne guadagnerà nulla se non portiamo fuori dal campo gli insegnamenti che possono nascondersi dietro questa meravigliosa pagina di sport e di festa collettiva. Le storie cambiano la gente, la gente cambia il mondo. Adesso abbiamo noi il pallone tra le mani, tocca solo battere quest’ultimo calcio di rigore. Il sogno nel cuore si è realizzato, adesso tocca a noi difendere la città.

E comunque afammokk, forza Napoli.

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