“Ih c’ammuina nenné!” Riusciamo a stento a parlare che il telefono sulla scrivania di Carmela squilla di continuo, tra appuntamenti e richieste. La sfotto: “Sei diventata una manager?” Lei controbatte: “Je vulevo fa’ ‘a monaca, mò tengo nu sacco d’amici”.
Gli amici di Carmela sono l’immensa rete che si muove attorno a Figli in Famiglia https://www.figliinfamiglia.it/, la onlus a cui ha dato forma nel 2005, grazie al supporto di Banca Etica che le ha fornito un finanziamento per acquistare e ristrutturare una fabbrica abbandonata nel quartiere di San Giovanni a Teduccio.
Io e Carmela ci siamo conosciute anni fa, mentre esploravo le realtà campane sostenute da progetti di microcredito. Ha una luce dentro, che non abbaglia, ma accoglie. Una luce commisurata sempre sull’altro.
Ritorno nel quartiere di San Giovanni dopo due anni, la strada che percorro è ancora più deserta di quanto ricordassi. É disorientante passare dalle zone che brulicano di negozi a questi luoghi dove devo percorrere almeno cento metri prima di trovare un bar per prendere un caffè.
Mi torna in mente quella teoria economica basata sulle forze di agglomerazione, quelle forze che determinano la concentrazione delle attività economiche. I lavoratori sono richiamati dalle imprese, le imprese sono a loro volta stimolate a produrre di più dalla domanda dei lavoratori che si spostano in quelle zone .
Mi chiedo come si possa innescare un meccanismo del genere, quale possa essere la forza motrice di partenza in quartiere così. Ragionando in termini economici, bisognerebbe intervenire su più fronti con un lavoro pianificato che dura nel tempo, è chiaro.
Ragionando in termini di vite, possibilità e desideri, la desolazione del quartiere trascina con sé l’animo di chi la abita. Non si può aspettare se in gioco c’è l’esistenza di un bambino.
“Ccà sparano!” Avrà massimo dodici anni e non lo dice a me, lo urla, mentre salta e si dimena per essere notato.
Chi nasce e cresce a San Giovanni ha il bisogno latente di essere riconosciuto. “Ho visto persone emozionarsi per una semplice busta con la spesa” racconta Carmela.
Sono persone che vivono in una sorta di abbandono da parte delle famiglie, come delle istituzioni.
“Sono i miei “scamazzatielli“, li definisce così.
Lei non li perde mai di vista, da quando ha riconosciuto il primo di loro, una ventina di anni fa: era affacciata al balcone per stendere il bucato e lui girovagava in strada perché i genitori utilizzavano la casa come base per lo spaccio di droga.
Carmela gli apre le porte della sua casa e con quel bambino e con lui ne arrivano tanti altri. Così tanti da dover sognare un posto che li potesse accogliere tutti.
Nella vecchia fabbrica abbandonata nasce una casa disegnata dall’animo di Carmela: uno spazio sicuro, di condivisione, dove oltre a provvedere ai bisogni materiali e quotidiani, si pensa all’altro come in un’unica grande famiglia.
Una casa non solo per i figli del quartiere, ma anche per le mamme o per chiunque abbia bisogno. Una rete indistruttibile di solidarietà.
“Nun te preoccupà nennè, stamme nuje aret ‘a tte” origlio da una conversazione tra Carmela e una giovane donna, forse una ragazza madre.
Rifletto sul concetto di famiglia nella nostra società. Se in origine è nata dal bisogno di tutelare la proprietà privata, come una forma di contratto, quella di Carmela si è formata per dare spazio ad un amore che non conosce misure, nè utilità. Un modo di essere famiglia che insegna l’appartenenza all’intera umanità, senza confini. Un luogo dove il dolore di uno abbraccia il dolore dell’altro, in uno scambio in cui non si distingue più chi da e chi riceve.
“Il mio sogno era mostrare come insieme, condividendo, si possa vivere meglio. Mi riferisco anche alla semplicità: vivendo con poco, si recupera una dimensione vera. Quando siamo tutti insieme qui, questo luogo si anima e io ritorno a quando ero piccola: il giorno del mio compleanno io festeggiavo portando i biscotti al cioccolato a tutto il palazzo. La povertà, da questa prospettiva, oggi mi sembra un dono.” mi racconta Carmela.
Le sue parole aderiscono perfettamente alle sue azioni: da suora laica si è imposta di mettere in pratica gli insegnamenti del Vangelo quotidianamente. Ha investito tutta la sua vita mettendola a disposizione degli altri senza aspettare che le arrivasse qualcosa in cambio e “in cambio ho ricevuto il mondo intero. Ho avuto amore, vicinanza. Sono entrata nelle storie di queste persone e ogni volta ho ritrovato il sapore più vero della vita.”
E’ il sapore che ha in bocca chi si guadagna le piccole cose, giorno dopo giorno, resistendo nelle difficoltà quotidiane grazie all’amore che ritrova nell’altro.
Secondo Carmela chi vive in questo quartiere ha un’enorme potenzialità da offrire alla società perchè avendo dovuto lottare per costruire una realtà a misura d’uomo, ne comprende il valore.
Quando le chiedo secondo lei quali componenti umane possano migliorare il nostro spazio pubblico, mi risponde semplicemente: “Ci vuole poco nennè. Anche portare da mangiare alla mia vicina che sta a casa malata, significa aiutare l’intera umanità.”
Il suo modo di comunicare è povero di velleità ed estremamente potente. Mi sembra che abbia dentro una forza indistruttibile, una fonte di speranza inesauribile. E’ così che chi è figlio di Carmela, chi cresce con lei, porta al mondo la stessa luce.
Come Salvatore che è arrivato nella comunità da bambino e oggi che ha poco più di trent’anni si dedica alla crescita dei bambini del quartiere con il laboratorio di teatro Ricevere e dare, dare e ricevere. Non so se esistano modelli più sostenibili di questo per far progredire l’umanità ingranando un circolo virtuoso che non si esaurisce mai.
Le porte che ha spalancato Carmela non sono solo quelle di una casa, sono le porte di una vita diversa, dove la desolazione che c’è attorno può essere compresa, analizzata, può diventare ricchezza.
Può trasformarsi in un brano rap nel laboratorio che i ragazzini seguono con Luca Caiazzo, in arte Lucariello.
Qualunque sia il ruolo o la storia di chi mette piede a via Ferrante Imparato, ci si ritrova in una “palestra dell’empatia“, come la definisce il rapper. Una palestra per potenziare la propria umanità allenandosi tra le difficoltà, più o meno atroci, che può riservare la vita.
Un luogo per comprendere che c’è sempre la possibilità di scegliere chi essere e chi diventare. A qualcuno servirà essere seguito nei compiti, a qualcun altro la libertà che si prova andando in barca a vela. Ci sarà chi userà il teatro, chi il fumetto e chi costruirà la propria idea di amore ricordando gli abbracci di Carmela. Un domani saranno adulti, frutto della famiglia che li ha cresciuti.
Un domani saranno anche i figli di un’economia che li ha salvati, di chi ha scelto di rendere i soldi uno strumento di libertà, nient’altro che un mezzo per avere accesso a delle opportunità che rendono più intenso e buono il sapore della vita.
Reportage fotografico a cura di Kristel Pisani Massamormile