«Che hai visto di Pasolini? Che sai, che hai letto?»

«No, letto niente, ho visto un film a metà.»

«Qual era?»

«No, stava scritto: Pasolini.»

Salvatore e Nicole sorridono di questa mancanza, sulla spiaggia di San Giovanni a Teduccio, che pare mal tenuta, al calar del sole. Se questa domanda mi fosse stata fatta tempo fa e avessi risposto così, sarebbe stato un problema; avrei peccato di grave ignoranza. La sensazione che nasce da queste risposte è invece di sollievo: una mancanza che sa di possibilità.

Su quei muretti, su quelle strade è il docufilm che racconta Pier Paolo Pasolini attraverso lo sguardo dei ragazzi di Scampia e dei volontari dell’associazione Figli in Famiglia di Carmela Manco attiva sul territorio di San Giovanni a Teduccio da quasi vent’anni, con la collaborazione tra le altre, del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, ARCI MOVIE e il Nuovo Teatro Sanità di Mario Gelardi. L’approccio al progetto è estremamente innovativo: un contatto diretto attraversando luoghi e persone che hanno partecipato alla vita del poeta bolognese, attraversandone l’umanità.

Il progetto TI RACCONTO PASOLINI è il tentativo di contrastare la povertà educativa che dilaga nelle periferie. Una sfida che Figli in Famiglia ha accolto e che intende portare avanti nel tempo per trasmettere ai ragazzi del territorio la fertilità della conoscenza oltre la didattica. È Cristina, una delle protagoniste del documentario, che nel dibattito finale alla proiezione, ha ricordato quanto l’istruzione italiana sia limitata al fornire il sapere dall’alto verso il basso attraverso lezioni frontali che lasciano poco spazio alla curiosità, alla riflessione, allo scambio di opinioni:

 «Lo studio nozionistico conviene anche allo studente perché gli garantisce una sicurezza che altrimenti sarebbe difficile da conquistare. La chiave sta proprio nello sporcarsi le mani, tentare sbagliare  e fallire, cambiare idea. Solo in questo modo si è davvero liberi».  

Li si associa sempre a bimbi sperduti, i ragazzi di periferia. O a quelli così tanto convinti che non ci sia altra via d’uscita che arrendersi alla criminalità. Eppure questi, che ci raccontano di Pasolini, sembrano tutt’altro che quel tipo di ragazzi di vita. 

Camminano con zaino in spalla, macchina fotografica appesa al collo, chi col cappotto, chi con la maglia a mezze maniche, sembrano stanchi e forse lo sono, ma continuano a camminare e interrogare chi lo ha conosciuto, chi ne sta custodendo i ricordi. Fanno domande, trovano risposte, si mettono in discussione e anche in silenzio assorbono l’unicità di un uomo che non può essere rinchiuso in un solo aggettivo. Seduti nella platea del Nuovo Teatro Sanità, ascoltano con cura cosa sia Pasolini oggi. 

Pasolini è oggi: è colui che ti permette di toccare il sacro e profano, di farti riconoscere nelle realtà delle borgate romane e dei rioni napoletani, in tutta la loro sporcizia e tutta la loro bellezza. Pasolini è carne, verità: ci obbliga ad assumerci le nostre responsabilità, denudandoci. «Si prende carico del nostro struggimento e lo esprime attraverso la poesia, il cinema, la letteratura» dice Simona «È bello considerarlo uno di noi, col nostro stesso dolore, passione. Passione che non riusciamo a contenere e manifestiamo così come ci sentiamo di farlo.»

Il documentario stesso è carne e verità. Le inquadrature perdono e riacquistano il fuoco, sono in costante movimento, ed è questo ciò che rende unico il documentario: ti permette di rivivere l’esperienza, quasi di toccare con mano qualcosa di raggiungibile. Sembra uno zio divertito in attesa che gli si vengano fatte domande scomode, il Pasolini nel murales di Jorit, su una palazzina di Scampia. Alle volte i ragazzi sono riuniti lì, sornioni che parlano fra di loro. Altre li vediamo assieme a Silvio Parrello, colui che in Ragazzi di Vita era il Pecetto, un poeta, scrittore e cineasta, un vecchio dalla faccia buona e dalla memoria ferrea, che custodisce quella di Pasolini in un museo non ufficiale pieno di ritagli, testi e oggetti appartenutigli, vicino via Fonteiana a Roma, una delle ultime abitazioni dello scrittore. Tante sono le foto dove spensierato, gioca a calcio. Nicole ne nota poi una al Centro studi di Pier Paolo Pasolini di Casarsa: «Qua è più naturale, felice, sta con la mamma».

Nel dibattito finale, Christian ammette che nonostante il viaggio, non hanno ancora saputo definire il pensiero di Pasolini. Chi ci è riuscito veramente fino ad oggi, e perché mai avrebbero dovuto farlo loro? Non è questo il motivo del viaggio. Pier Paolo Pasolini non può e non deve essere compresso in una serie di aggettivi, aneddoti, informazioni, perché verrebbe meno la sua natura poliedrica, quella che ci ha permesso di comprendere non solo quanto l’arte sia magnifica e violenta in tutte le sue forme, ma com’è magnifico e violento l’essere umano. La provocazione di Pasolini è quella di tentare di conoscere e conoscersi, per renderci liberi; ricordarlo ci permette di lavorare con noi stessi attraverso più strumenti, più lingue, senza perderci mai.

Cos’è che allora ci rende ancora così sterili, così pregiudicanti, così incapaci di andare oltre il nero e bianco? Che ci fa ancora parlare di povertà linguistica ed educativa? Cosa ci fa ancora sentire il bisogno di creare manifestazioni su manifestazioni, associazioni, iniziative, ripescare i morti e le loro predicazioni, richiamare (o urlare) all’attenzione in tutti i modi che conosciamo? Perché si parla ancora di quartieri, di periferie, rioni, guappi e fuggitivi, di ragazzi di vita? Cosa manca?

«Sono Gabriele, vengo da Scampia, una domanda che volevo fare: ma prima di venire a Scampia, avevate pure voi quella sensazione che dicono tutti quanti, che dicono che siamo solo camorristi e che facciamo solo i criminali, avevate anche voi quella paura?»

«No» risponde Christian «anche perché viviamo degli stessi pregiudizi.»

“Il confronto“, sottolinea Cristina, “l’esperienza («Esci, tocca le femmine, vai a rubare!), la conoscenza di sé e dell’altro ha reso Pasolini un uomo libero. Cosa accadrebbe se ci aprissimo alla chiusura? Se fossimo davvero così coraggiosi da sporcarci le mani, così spregiudicati da aprirci al mondo, da trovare una profonda e vera connessione con l’altro e abbracciare il diverso?”

Alberto Moravia in Comizi d’amore affermava: «Bisogna sempre cercare di capire. Le cose che si capiscono non scandalizzano. […] Lo scandalo in fondo, è la paura di perdere la propria personalità. Il confronto e la comprensione dell’altro, sono le armi per combattere l’odio e la paura.»

Su quei muretti, su quelle strade, si conclude con i ragazzi che sulla spiaggia, ci voltano le spalle e sorridenti, si incamminano. Ricorda la fine del documentario che Cecilia Mangini scrisse proprio con Pasolini, ispirato a Ragazzi di Vita. Quel lavoro si chiama Ignoti alla Città, e li potevi vedere veramente: Lumacone, Chinotto, Sciacallo, Brooklyn, Droga, che con una cicca in bocca pesantemente se ne vanno, con la consapevolezza di star raggiungendo nessun luogo. Nicole, Christian, Cristina, Simona e gli altri, loro no. Sono tutt’altro che ignoti, tutt’altro che persi.

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