Al funerale ci siamo tutti. Ma non tutti nel senso tutti i cittadini italiani, o tutti i suoi lettori, seguaci, ammiratori, tutti i giornalisti e forse, ribadisco forse, nemmeno tutti i suoi amici. Non lo so, ma ci siamo tutti. Perché sembra un posto proprio per tutti, per ciascuno di noi.
Arrivo fuori la Chiesa degli Artisti, in Piazza del Popolo, verso le 12.30. Non voglio perdermi nulla. Nel treno ascolto ripetutamente una vecchia canzone, di cui mi ossessiona una frase “No me pongan en lo oscuro a morir como un traidor, yo soy bueno y como bueno moriré de cara al sol.”
Ad attendere c’è già qualcuno con il suo ultimo libro tra le mani, o con l’articolo de La Repubblica che parla di lei. Dopo un po’ arrivano i giornalisti, si innalza qualche striscione sull’antifascismo, sulle famiglie queer e iniziano a distinguersi i primi volti noti tra le sue amicizie e la sua famiglia.
Ci chiedono di arretrare, si fa fatica. Tutti vogliamo esserci. C’è una calca di persone agitate, sembra una manifestazione politica. Tutti vogliamo partecipare.
Quando il feretro arriva, c’è un lungo applauso. Dura più di cinque minuti, sono combattuta tra il doverlo documentare e il voler applaudire. Penso a quanto sia difficile avere la responsabilità del racconto, quando vuoi semplicemente essere parte di quello che stai vivendo. Però c’è molto da testimoniare oggi.
La Chiesa è vuota e io mi ritrovo proprio davanti. A un metro da me c’è Roberto Saviano seduto sulla prima panca, accanto a lui Chiara Valerio. Alle spalle Elly Schlein. La fila centrale è occupata da Lorenzo Terenzi e dai figli. Di fronte, in piedi nella zona centrale della Chiesa, scorgo Marco Damilano. E poco dopo arriva un uomo senza capelli, dagli occhi verdi e grandi. Saluta Saviano, accarezza sulle guance Valerio. È Paolo Virzì. Lo riconosco dopo buoni venti minuti passati alle sue spalle. Tra poco mi cacciano, penso, mandano via me e le persone accanto a me.
Invece no, io, altre signore, qualche ragazza e un bambino che avrà avuto al massimo 11 anni con la macchina fotografica analogica tra le mani, restiamo. Per noi c’è posto. C’è posto per tutti, tranne alcuni giornalisti allontanati con veemenza. Sono gli stessi che poco prima ho ascoltato fare qualche battuta sul patriarcato, aggiungendo “stiamoci attenti qui, non si può dì niente”. Gli stessi che in Chiesa hanno alzato i toni dichiarando che stavano solo facendo il loro lavoro e quel lavoro consisteva nel puntare l’obiettivo su Saviano o su Schlein.
L’omelia funebre è cucita su di lei. “Siamo generati dallo spirito e non dal sangue” recita il prete. Le canzoni in Chiesa sono un inno alla vita, all’energia vitale.
Gli amici, i familiari intonano quelle canzoni. Conoscono a pieno il motivo per cui sono stati scelti proprio quei canti, forse si guardano pensando a quello che avrebbe pensato lei e in quegli sguardi scorgo contemporaneamente complicità, ironia e dolore. È straziante, tanto quanto intimo, ma loro ci permettono di stare lì e viverlo. Lo rendono umano, pubblico, non c’è nulla di privato, lo vivono alla luce del sole. Dolore e amore come beni comuni. È un funerale politico.
D’altro canto se, come racconta Valerio, per Murgia cucinare era politica, ridere era politica, scrivere era politica penso che non potesse non aspettarsi che il suo funerale sarebbe stato politica. Ed è il riflesso esatto della sua idea politica, cioè di partecipazione alla società, senza gerarchie. Siamo tutti lì per lei, uno accanto all’altro senza gerarchie di affetto, popolarità, rilevanza istituzionale. Io e Virzi ci stringiamo la mano in segno di pace. Mi sorride a trentadue denti. Un sorriso autentico di pace.
In Chiesa c’e una giovane donna con una disabilità mentale. I suoi versi, a volte risate, a volte suoni non identificabili, riecheggiano nel silenzio, anche nei momenti più delicati e intimi, quelli in cui si lascia spazio silenziosamente al dolore. Qualcuno si gira infastidito, qualcuno ha nello sguardo la fermezza della comprensione e della tolleranza. Com’è difficile stare in società, ma c’è posto per tutti. C’è posto per chi attraversa il mare.
Questo è il pensiero semplice e nitido che Michela Murgia ha portato avanti con il suo lavoro e il suo attivismo. Spesso il motivo per cui è diventata un bersaglio mediatico e non solo. “Gli scrittori al giorno d’oggi vengono presi di mira più dei politici e Michela ha nascosto tutto il dolore che ha provato a riguardo” dichiara Saviano. Forse accade questo perché alcune singole voci hanno più credibilità del volto di un partito.
Penso non sia così difficile essere credibile, se penso a Murgia. Penso che basti essere e mostrarsi umani. In salute e in malattia, nella gioia e nel dolore e magari con quel taglio ironico, critico e profondamente accogliente che le permetteva di affrontare ogni aspetto della vita.
Arriva il momento degli ultimi riti. Sembra quasi che il prete ci voglia accompagnare con calma, ci prepara alla fine di quel momento, perché nessuno di noi vuole andarsene da lì. Forse qualcuno teme che sarà difficile ricreare uno spazio così aperto all’esterno di quella Chiesa. Ci vuole talento a crearlo con la vita, ma si deve aver esplorato l’umanità senza confini per farlo con la morte.
*Il titolo di questo testo è una citazione tratta dal discorso di Chiara Valerio per Michela Murgia durante il funerale.