Certo, deve essere difficile vivere in un tempo in cui i costumi cambiano giorno dopo giorno. Deve esserlo ancora di più se si rimane ancorati ad ideali fuori tempo massimo. Le scelte a quel punto sono due: o si combatte contro un mondo che va avanti per la sua strada oppure si diventa dei nostalgici.

Di nostalgia deve saperne qualcosa il Senatore Antonella Zedda, ex del Movimento Sociale Italiano, di AN ed eletta in questa legislatura con Fratelli D’Italia. Non ho usato la parola “senatrice” di proposito: è stata la stessa Zedda  a richiedere pubblicamente al vicepresidente del Senato di essere chiamata col titolo al maschile, fra l’indignazione di colleghe e colleghi. Il punto sarebbe, ha aggiunto, che durante la nomina le è stata conferita la carica di Senatore, col termine declinato al maschile. Certo, solo ad essere ingenui si potrebbe credere alla pignoleria di Zedda, ma stiamo al gioco. 

Esaminiamo la questione dal punto di vista linguistico. Senator (nominativo, singolare, maschile) è il nome con il quale in età Repubblicana e Imperiale i romani chiamavano coloro che sedevano nel Senatus, l’organo politico per eccellenza. Esso deriverebbe etimologicamente, a sua volta, dall’aggettivo senior o dal sostantivo senex, rispettivamente “più grande” e “vecchio”, entrambi maschili. Non potrebbe essere altrimenti dato che tutti i membri del Senato erano, al tempo, uomini in età avanzata per giunta e come saprà chiunque abbia anche per sbaglio fatto qualche anno di Latino, per queste caratteristiche erano anche chiamati patres, cioè padri. Si trattava, dunque, di una società patriarcale.

D’altro canto, non mi sembra che il ritorno ad una millantata purezza della lingua fosse l’intento alla base della richiesta, anzi, dietro di essa soggiace una scelta politica ben precisa. L’utilizzo di un unico termine, singolare e maschile, è una scelta di campo: serve a Zedda per comunicare al suo elettorato che pur essendo una donna non ha tutti quei grilli per la testa che la spingono a voler essere riconosciuta in quanto tale e contemporaneamente, seguendo una logica machista, può benissimo essere chiamata al maschile perché è da uomini il ruolo che sta ricoprendo. Nulla di nuovo, soprattutto dopo aver avuto un senatore nero che si è fatto eleggere al grido di “aiutiamoli a casa loro”.

Zedda poi asseconda un gioco facile: la lingua evolve velocemente, ma non abbastanza per far fronte ai cambiamenti epocali a cui stiamo andando in contro. Se da una parte c’è la resistenza politica al cambiamento, dall’altro si fa anche fatica ad operare scelte sul linguaggio da usare perché la tendenza di ogni parlante è quella di semplificare.

C’è poi da considerare quanto si sia velocizzata e semplificata la comunicazione attraverso i nuovi mezzi: non stupisce, in questo senso, il sensibile svuotamento del vocabolario personale di ciascuno di noi. Abbiamo, insomma, la tendenza a scegliere poche parole. Per questo motivo tende a conservarsi l’utilizzo del maschile come “genere ombrello” che comprende tutti gli altri, e questo favoreggia il retaggio patriarcale della nostra società.

Eppure da tempo va avanti la lotta per un linguaggio inclusivo, che permetta attraverso le parole utilizzate che ognuno riesca a sentirsi parte del conteso sociale. L’introduzione del genere neutro, con la desinenza in u o in schwa, è parte di queste battaglie. Sappiamo, tuttavia, quanto sia difficile imporre dei cambiamenti dall’altro in una lingua. Pensiamo a quanto poco abbia attecchito il divieto d’uso delle parole straniere durante il ventennio fascista.

Il problema è che l’ inclusività non può prescindere da questioni come questa. Se una società inclusiva è un costrutto sociale in cui ciascuno può godere dei diritti e delle opportunità che esso offre, non possiamo abbandonarci ad una pigrizia linguistica perché la parola e l’uso che se ne fa è uno strumento per riconoscersi reciprocamente.

Proprio per questo, per una volta nella mia vita, mi sono trovato d’accordo col leghista e Vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio che ha acconsentito alla richiesta del Senatore Zedda. Che problema c’è se una donna si sente a proprio agio ad utilizzare un sostantivo al maschile per definirsi? Ha importanza se si tratta di una scelta politica alquanto nostalgica? E soprattutto, perché non dovremmo rispettare la scelta di una persona che vuole essere qualificata utilizzando un genere diverso dal suo sesso biologico (neutro incluso)? 

Lo so, la richiesta di Zedda non ha niente a che fare col genere, anzi, si avvale degli strumenti retorici della libertà di autodeterminazione per avallare un discorso che, se portato alle estreme conseguenze, ha come scopo quello di vietare la libera espressione della propria identità di donna. Eppure mi chiedo, in preda ad un dilemma d’inclusività , se sia il caso di combattere politicamente questa richiesta.

Perché una volta avallata, sulla base di un ragionamento inclusivo, non resterebbe altro da fare che insistere in questa direzione. Ragiono per assurdo e immagino che chiunque in parlamento inizi a pretendere di essere chiamato, sulla base della propria preferenza, magari introducendo in questa bagarre l’utilizzo del genere neutro.

E se questa abitudine pionieristica fosse adottata in tanti ambienti sociali, dalla politica tutta agli uffici, dalle riunioni di condominio alle scuole? Se l’utilizzo di questo tipo di esternazioni legittime potesse educarci alla diversità e alla scoperta dell’altro? Dal Parlamento alla vita quotidiana prolifererebbe un approccio inclusivo in grado di far sentire chiunque riconosciuto e integrato. Quantomeno un modello accogliente.

E se tutto fosse partito dal Senatore Zedda, se una richiesta patriarcale, populista e misogina fosse la molla per il cambiamento

In tal caso non mi resterebbe che ringraziare il Senatore, anche se la preferivo quando era in coppia con Piras.

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