Gli stereotipi culturali sono da sempre alla base delle rappresentazioni artistiche, soprattutto di quelle a sfondo comico. L’utilizzo di personaggi tipici è essenziale per portare lo spettatore all’interno di un mondo che conosce o che crede di conoscere attraverso i pregiudizi o i preconcetti nei confronti di una determinata categoria.

Abbiamo già parlato, in occasione del nostro articolo sulla blackface (leggi qui) di quanto i luoghi comuni al negativo siano stati utilizzati nel corso della storia dalle classi sociali dominanti per ribadire la loro supremazia culturale.

Lo stereotipo, pur essendo una costruzione artificiosa, agisce sul reale e cambia le persone. Non esistono, tuttavia, soltanto stereotipi negativi.

Content creator e canali Youtube hanno fatto la loro fortuna sul luogo comune del terrone che impartisce insegnamenti morali al polentone, così come la filmografia italiana più recente da “Benvenuti al Sud” fino a tutto il filone zaloniano. Ebbene, per coerenza dobbiamo accettare il fatto che anche questo tipo di concezione positiva, essendo stereotipata, non rappresenta il reale tanto quanto le rappresentazioni al negativo.

C’è un problema però: se ormai abbiamo interiorizzato che la stereotipizzazione atta a deridere qualcuno è socialmente inaccettabile e offensiva, il luogo comune di segno positivo è invece diventato trendy, oltre ad essere un perfetto biglietto da visita per il turismo.

E andrebbe anche bene così, se non fosse per il fatto che Napoli, e in generale il Sud si conosca attraverso simpatiche macchiette che la domenica si fanno ingozzare di cibo dalle proprie nonne o attraverso reel di Instagram con le immagini di Napoli alternate a foto di pizze e fritti con in sottofondo una versione in chiave tarantella di “Alle falde del Kilimangiaro”.

“Cosa resta al turista di un sud paradiso artificiale?”.

Paesaggi, folklore, cucina che vengono svuotati di tutti i significati culturali per diventare l’emblema di uno stile di vita rilassato in cui concedersi una vacanza? Cosa resta del più grande centro storico patrimonio dell’Unesco se prende le sembianze di un parco giochi in cui la cultura viene subordinata al food porn da quattro soldi in quei video in cui il giullare di turno squarcia con le mani una povera pizza fritta per poi sbrodolarsi?

A maggio parlavamo dei vantaggi acquisiti dalla città all’indomani della vittoria dello scudetto (trend in verità già avviato in precedenza) e possiamo dire che dopo altri sei mesi la crescita è aumentata oltre ogni più rosea aspettativa. Ma a volte mi chiedo com’è Napoli vista con gli occhi dell’altro, di chi la scopre per la prima volta.

Quale può essere l’idea di un americano, di uno svedese, di un giapponese che passa in questa nuova Disneyland fatta di sfogliatelle e di spritz a buon mercato? Perché di questo si tratta, nelle top ten dei luoghi più consigliati dai siti che appaiono per primi sui principali motori di ricerca figurano Spaccanapoli e le sue pizzerie e solo timidamente fa capolino il MANN.

Fino alla fine del 2022 il Museo Archeologico risultava undicesimo fra i musei italiani per numero di ingressi, nonostante la collezione Farnese sia dal diciannovesimo secolo il sacro Graal di chiunque volesse conoscere qualcosa del mondo classico.

Ma Napoli, come tutto il Sud, non è un paradiso. Napoli è cambiata come temeva il killer di “No Grazie, il Caffè Mi Rende Nervoso”, ma non nel modo in cui avrebbero voluto quelli che nell’82 chiamavano i Festival con nome di “Nuova Napoli”. La città è diventata più macchietta di quanto Funiculì Funiculà avrebbe voluto, svuotata di quell’elemento culturale della musica e del teatro dell’arte, degli affreschi del San Carlo e del cuore spezzato delle Macchine Anatomiche.

Questa nuova Napoli puzza di fritto, di attività fiorenti e camerieri a nero. I dati sull’emigrazione non cambiano: il flusso verso l’esterno è costante, di gente specializzata o specializzata solo a farsi sfruttare.

“Napoli – su quest’aspetto – nun’ adda cagnà maije”.

Come non cambia il divario sociale tra la provincia e la città, nei trasporti, negli svaghi, nelle possibilità. Pochi si salvano, toccati per sbaglio dal raggio della linea metropolitana con le stazioni più belle del mondo, mentre l’interland sembra l’Unione Sovietica. E forse mi fa rabbia vedere dei provinciali come me unirsi al trend inquadrando Posillipo e facendo suonare “Malatia malatia”, capendoci poco o nulla di cosa Napoli sia davvero, una città che per farsi conoscere deve avere una maschera. Forse Napoli è veramente una malattia, una sorta di Sindrome di Stoccolma in cui più ti fa male più ti innamori, perdutamente. La Sindrome di via Petrarca, quella che tutte le volte in cui ci passi dici: “Ma sai che, quasi quasi, in una casa come questa a Napoli ci rimarrei?”. Continuiamo a meritarci di più anche se in pochi hanno una casa lì. Napoli merita di più, perché aveva il pregio di sembrare una città vera. Napoli ti incantava, ti portava in un vicolo e ti faceva uscire nudo. Sto esagerando, è chiaro, lasciate usare anche a me qualche stereotipo.

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